Il genetliaco del Coronavirus
E siamo giunti all’anniversario.
Ebbene sì, è già passato un anno dal giorno in cui a Codogno una dottoressa capì che un suo paziente – giovane e forte, eppure così malmesso – aveva contratto proprio quel virus di cui da qualche settimana sentivamo parlare ma che pure ci pareva una cosa tanto lontana.
Ancora, nei giorni successivi, non ci volevamo credere. Le strade e le piazze erano piene, la movida non conosceva soste, nei ristoranti non si trovavano mai tavoli liberi, nel weekend le discoteche straripavano di giovani accalcati sulle piste da ballo …
E intanto, gli esperti, intervistati alla tivù, ci rassicuravano: «è poco più di una brutta influenza» dicevano all’unisono!
Poi, una domenica di marzo, nel pieno della notte, scoprimmo un acronimo: dpcm.
Con quelle quattro lettere ci veniva fatta una straordinaria richiesta: chiuderci tutti in casa!
E ubbidienti, tutti sull’attenti, lo facemmo: ci sentivamo soldati chiamati a difendere la Patria, i balconi al posto delle trincee.
Ma purtroppo, per centomila italiani non è andato tutto bene e insieme alle loro salme, anche i buoni propositi sono stati seppelliti.
Quanto alla solidarietà che ci avrebbe contagiato più del coronavirus, siamo qui oggi a vedere che anche nella corsa ai vaccini ciascuno pensa soprattutto alla propria bottega.
E io che mi ero illusa che chi avrebbe scoperto per primo la formula magica l’avrebbe regalata alle industrie concorrenti, pur di salvare il mondo!
La nostra vita è cambiata come mai ci saremmo immaginati, destinata a non tornare mai più quella di una volta. Ho sentito l’altro giorno un professore che rifletteva su questo: sosteneva che il non toccarsi e il non baciarsi ha in fondo anche qualcosa di molto bello. «Adesso è vero amore – diceva – perché si rinuncia al possesso dell’altro».
MAH, che dire: magari sono d’accordo sull’amare senza possedere… Però quanto mi manca la vita di prima!
I baci, gli abbracci, i volti scoperti, le risate dei commensali attorno ad una tavola imbandita, respirare l’aria a pieni polmoni, senza filtri, senza mascherine!
Scrivo queste righe, forse queste banalità, mentre siedo da sola, davanti alla prima tazzina di caffè del mattino, pronta per iniziare una nuova giornata in Smart working…
E mi tornano alla mente le parole scritte da Giovannino Guareschi quando si trovava prigioniero in un lager nazista: «Non muoio neanche se mi ammazzano».
E’ vero, l’Italia ha passato di peggio… …O forse no?