Le vostre storie

Sempre sempre donna

Giacomo Puccini, Lucca, 22 dicembre 1858 – Bruxelles, 29 novembre 1924

Da quando Puccini diventò Puccini, ossia uno dei compositori più amati ed apprezzati dal pubblico (meno dalla critica ma questa è un’altra storia) si è discusso molto sul rapporto tra il Giacomo Puccini uomo e compositore e l’universo femminile che è preponderante nelle sue composizioni, sia con riferimento ai personaggi delle sue opere, sia in rapporto alle donne incontrate nella sua vita.

Questo è dovuto in gran parte ad una frequente ed ormai leggendaria immagine di Puccini come impenitente donnaiolo, alimentata da diverse vicende biografiche e dalle stesse sue parole con cui amò definirsi ‹‹ un potente cacciatore di uccelli selvatici, libretti d’opera e belle donne››.

Ma Puccini non fu il classico dongiovanni: il suo temperamento cordiale ed apparentemente espansivo, celava la sua vera indole di persona timida, solitaria e la sua natura ipersensibile lo portava a non vivere con troppa leggerezza i rapporti con le donne.

Una natura complessa: se da un lato amava le compagnie e pure scapestrate, allo stesso tempo, sentiva il bisogno della solitudine; era pigro e geniale, nevrotico, strafottente e timido, goliardico e primitivo, capace di elaborare melodie sublimi e versi di una scurrilità unica.

Personalità duplice dunque: sensibile e cinico, estrovertito e angosciato, passava da una rumorosa allegria, spesso becera, alla malinconia e l’inquietudine e alla cupezza, fumatore accanito e gagliardo mangiatore, lavoratore fantasioso, ma discontinuo, disposto ad amare e a soffrire con una passione senza pudori, quasi sempre sopra le regole, come i suoi personaggi, spudoratamente bugiardo, fanfarone e infedele.

Non per nulla Puccini, parlando delle sue opere e dando ordini ai suoi librettisti, amava ripetere: ‹‹Voglio il riso e il pianto, la delicatezza e la volgarità, la malizia e l’innocenza, l’inquieta e malinconica solitudine che è dell’uomo, voglio carne umana, dramma rovente, sorprendente quasi, razzo finale, anche se è tristezza, malattia e morte››.

D’altra parte è innegabile che fosse stato circondato dal gentil sesso sin da bambino, cresciuto dalla madre (il padre morì quando era ancora molto piccolo) e con cinque sorelle (di cui quattro più grandi di lui) ed un solo fratello più piccolo.

Insieme alla moglie, Elvira Bonturi

Fu allevato in una famiglia in cui le donne dovevano apparirgli inconsciamente un’ossessione, l’incarnazione ognuna di un modello femminile diverso (la donna forte, la ribelle, l’appassionata, la religiosa) la sintesi di un mondo fatto di dolcezza e di costrizioni. 

Le donne lo soffocavano d’affetto, d’attenzioni, ma anche di ansie, di divieti, d’attese e di frustrazioni. E’ ovvio, che cresciuto in un universo a preponderanza femminile,  anche la sua psiche e successivamente la sua opera, ne furono condizionate. Tuttavia, a mio parere, si è abusato di queste radici per cercare di spiegare la genesi delle sue opere rappresentandolo come una specie di “barbablù” musicale che sfogava le sue pulsioni di morte scegliendo le sue eroine, dolci, belle e fragili e  facendole innegabilmente perire.  

Furono elaborate così tante teorie che lo dipingevano succube della “Madre” freudiana, da dimenticare che in realtà Puccini “amò” visceralmente tutte le sue eroine, le amò tanto da commuoversi mentre scriveva la musica della loro morte. Quanti soggetti respinse perché la protagonista non lo convinceva, non aveva saputo fargli scoccare la scintilla, mentre invece si “innamorò” a colpo di Manon, di  Butterfly ed altre figure letterarie che in mano a lui divennero degli archetipi musicali.      

Puccini  amo’ tutte le sue donne, le amo’ senza mai giudicarle o condannarle, neppure quando si trattò di “donne di piccola virtù”, come Magda della Rondine o la spumeggiante Musetta; amorali forse, ma mai immorali.

Tutto ciò ha portato ad una descrizione delle caratteristiche pucciniane piuttosto superficiale, senza mai porre una giusta  attenzione alle mille sfumature che contraddistinguono le opere e le donne che Puccini immortalò.

La morte delle eroine (e degli eroi) nel melodramma non è una novità introdotta da Puccini. In quello ottocentesco, carico di passioni spesso disgraziate, amore e morte vanno a braccetto. Anche i musicisti che l’avevano preceduto, scelsero soggetti di autori nei quali, quasi inevitabilmente, la protagonista moriva in modo più o meno atroce, ma non per questo sono stati bollati come distruttori e corteggiatori di morte.

Una differenza però esiste e balza agli occhi dell’osservatore più attento:  il modo di morire di una Gilda o di una Eleonora. Verdiana è diverso da quello di una Manon pucciniana. La disperazione, resa in modo magistrale dalla musica è enorme perché a morire non è soltanto un personaggio, ma un imbarazzante simbolo d’amore, una donna scomoda che rispecchia le pulsioni più segrete degli uomini.

Siamo in piena fin de siècle e i valori imperanti sono estremizzati e sensuali, mentre il cielo auspicato come meta ultima va a scomparire, al contrario dell’epoca nella quale operò Verdi, quando la morte era vista come l’unica possibilità per gli individui, oppressi dal potere, di realizzare le loro legittime aspirazioni terrene.

Non dimentichiamo che Puccini appartiene, temporalmente parlando al movimento decadente, quel movimento che si evolverà sia nella pittura delle piccole cose del Pascoli, (fervente ammiratore di Puccini)  che nelle forme languide e stilizzate dell’estetismo dannunziano, con tutto il suo carico di amori impossibili riscattati dalla morte…..‹‹La fiamma è bella ››, dice Mila di Codro prima di salire al rogo purificatore.

Anche Mimì, nella sua fragilità spera con tutte le sue forze di non morire, è avida di vita, di amore; ha appena bevuto dal calice della passione e della felicità; se non abbiamo un suo ultimo straziante lamento è perché passa dal sonno alla morte, lasciando alla musica, e a Rodolfo, il compito di esprimere la disperazione per questo fiore spezzato.

Invece Tosca fa una morte “eroica” ma non perché sia un’eroina. Eroina lo diventa suo malgrado perché le passioni politiche sono lontanissime dalla sua concezione di vita che per lei  è circoscritta solo dai sentimenti. Muore travolta dalle circostanze e perché con la morte di Mario, la vita  non ha più niente da darle, ma se il suo amato fosse vivo, di sicuro si batterebbe come una leonessa per affermare il suo diritto alla felicità ed all’amore.  

E’ questa la differenza della psicologia puccianiana nei confronti di quelle dei musicisti che l’avevano preceduto.

L’amore, che anche sulla scia delle recenti scoperte fatte nel campo della psicanalisi, assurge un valore ancora più ampio, e che diventa oggetto di studio da parte di svariate discipline, viene rappresentato da Puccini per quello che veramente è: un perdersi, un annullarsi, un rischio tremendo che si corre, che può condurre alla perdita di se stessi e della propria vita, ma senza il quale non vale la pena di vivere.

In realtà, l’amore in Puccini assume una colorazione più intensa, più viva, un qualcosa di bellissimo e letale insieme, ma che conduce anche alla più grande consapevolezza di se stessi e delle proprie potenzialità. Non amor di patria, non grandi aspirazioni, ma l’amore come fine ultimo dell’esistenza; questo è stato spesso rimproverato a Puccini tacciandolo di essere autore “borghese” e cantore di pseudo valori borghesi, ma si tratta di un giudizio errato, o quantomeno frettoloso.

Intanto è vero che quando Puccini visse e scrisse le sue opere, l’Unità d’Italia era già avvenuta e certi fremiti patriottici erano meno avvertiti e quindi le aspirazioni ed i  valori erano altri, forse meno sublimi, ma sicuramente più terreni e tangibili.

Si è parlato di modernità in Puccini; è vero, Puccini è un uomo moderno, sia perché attribuisce ai sentimenti una potenza fino ad allora misconosciuta e sia perché riconosce alle donne una grande dignità, una grande consapevolezza del loro valore e della loro intelligenza nel vivere questo sentimento.

Sentimento dunque, ma non sentimentalismo anche perché Puccini rifugge da quegli effetti musicali che hanno facile presa sul pubblico, nonostante le accuse di faciloneria musicale che gli furono troppo spesso rivolte.

Le eroine pucciniane, che muoiano o meno, sono sempre donne che sanno ciò che vogliono e per questo sono pronte a rischiare e mettersi sempre in discussione, non sono “fragili” eroine come sono sempre state descritte. Non è giusto quindi dire che Puccini cantò solo “donnette”, sartine, demi-mondaine, schiave e gheishe, cercando così di accomunare in un binomio “musica mediocre per cantare donne mediocri”.

Tutte le donne uscite dalla penna di Puccini sono forti e decise. Tuttavia l’intuito psicologico-musicale di Puccini si esprimerà al meglio con le due eroine “esoticheButterfly e Liù, quasi che la loro provenienza asiatica avesse generato un humus eccellente per far germogliare le sottigliezze di un animo femmine eccezionale e che una pittura musicale portata a vette sublimi, avrebbe reso immortali.

Eppure, almeno una o due delle sue donne Puccini non le amò per niente. Chi sono? E’ presto detto, sono la Principessa Zia della Suor Angelica, creatura che effettivamente non ha nessun sentimento umano e men che meno femminile. Come poteva amare un personaggio simile, un Puccini dalla sensibilità così esasperata che spesso ha rischiato di femminilizzare anche i suoi tenori?

Anche Turandot, la principessa di gelo o “la cinesona” come amava definirla Puccini nelle sue lettere, non era una creatura con la quale si sentisse molto in corrispondenza sentimentale. Forse ne comprende le ragioni del suo essere così crudele ma tutta la sua indecisione sul finale la dice lunga riguardo ai sentimenti che l’algida fanciulla gli ispirava.  

Dunque Puccini, borghese, cinico? Non diremmo proprio perché le sue fanciulle che muoiono per amore sono l’esempio più puro della superiorità del sentimento libero e gratuito, il canto fine a sé stesso, l’amare senza aspettarsi di essere riamati, rappresenta la vera possibilità di affinare la capacità d’amare come espressione dell’espansione dell’anima.

Un’ultima considerazione: anche se qui il tema principale sono le donne occorre fare un piccolo excursus sui protagonisti maschili in Puccini. Diciamocelo chiaro; gli uomini nelle opere di Puccini per quanto detentori di arie meravigliose come quelle di Cavaradossi, di Calaf o di Rodolfo, alla fin fine sono e restano solo dei comprimari.

Per quanto possano sembrare trascinate dagli eventi che i maschi di turno mettono in moto, sono sempre le donne le dee ex machina dell’opera. Scarpia ordisce le sue trame? Alla fine, anche se tragicamente sarà Tosca che prenderà in mano la situazione. Di fronte all’infantile egocentrismo di Pinkerton, Butterflay assurge ad una dignità immensa anche perché rovescerà ruoli e situazioni nel modo più atroce possibile e Minni riesce a tenere a bada uno sceriffo, redimere un bandito e domare un gruppo di rudi minatori.

Ultimo ma uno ultimo sarà il suicidio di Liù che imprimerà la scossa finale alla vicenda di Turandot.

Beh, a questo punto mi sembra evidente che Puccini non ricopra il semplice ruolo di “amante della caccia e delle belle donne”, troppo semplicistica riduzione per definire un compositore che fu un finissimo psicologo, soprattutto dell’inesplorato universo femminile, e che ripropose il dualismo che lo caratterizzò sempre nelle “sue” donne musicali.

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Antonella Bausi

Antonella Bausi nasce a Firenze nel 1956. Laureata in filosofia, bibliotecaria presso l’Istituto tecnico Leonardo Da Vinci, ha da sempre nutrito una forte passione per la storia tutta, per Firenze in particolare, e per la scrittura in generale.

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