Gioiello d’amore
Il Duca di Toscana, Cosimo, primo di questo nome, osservava da un bel pezzo il ritratto di donna che si trovava davanti.
Il maestro Angiolo Bronzino, pur essendo, per così dire, quasi di casa alla corte del Duca, si guardava bene dall’interferire ed a malapena osava respirare, per non disturbare le riflessioni del suo signore, riflessioni che parevano tutt’altro che lieti.
Ed in effetti i pensieri che vorticavano nella mente di Cosimo de’ Medici avevano un colore che era quello del rimpianto e della nostalgia, mentre osservava quel volto di donna, dall’ovale perfetto, con gli occhi grandissimi che parevano guardare lontano, quasi verso un’altra dimensione.
Bronzino aveva fatto un lavoro magnifico, pensò il Duca, riuscendo a rendere l’espressione di dolce malinconia e di severità di intenti che quel volto di donna manifestava, dando l’impressione appunto che la dolcezza fosse bilanciata dalla severità, come le mascelle appena un po’ squadrate, facevano intuire, proprio l’espressione che Lucrezia Pucci era solita emanare.
Si non si poteva imputare nulla al bravo Agnolo perché tutto, tutto, ogni particolare era un piccolo capolavoro di perfezione, l’abito di un rosso porpora, la catena d’oro che fungeva da cintura, le maniche sbuffanti in alto e strette in basso, la treccia di capelli biondo scuro che regalmente ornava la testa piccola e fiera.
Ma fu un oggetto che faceva parte dell’abbigliamento, che improvvisamente calamitò la sua attenzione, procurandogli un moto del cuore vivissimo, il medaglione di Lucrezia, con impresso il motto “dure san fine amour” ovvero “L’amore dovrebbe durare per sempre”.
“Il nostro motto”, si disse con una fitta dolorosa, “il motto che Lucrezia aveva scelto per noi…quell’amore al quale ho dovuto rinunciare, ma che porto sempre nel cuore e che pure lei ancora mantiene, visto che non si è separata da questo gioello ed ha voluto metterlo quando posava per il ritratto!”
Con un cenno, chiamò a sé il Bronzino.
“Bene mio caro maestro, molto bene, il ritratto è veramente pregevole, siete un genio del pennello senza alcun dubbio!”
Il pittore riconoscente si inchinò al suo Duca che era tornato a posare i suoi sguardi sul dipinto.
“Andate ora mio caro maestro, andate e lasciatemi il quadro fino a stasera ve ne prego” aggiunse e, poiché l’altro aveva avuto come un moto di dinego, continuò.
“Nessuno lo saprà, come nessuno sa che lo avete già terminato; tornate stasera e vi potrete riprendere il ritratto, ma fino ad allora, voglio tenerlo qui…andate ora”, aggiunse con un cenno della mano e con un tono al quale era impossibile opporsi.
Rimasto solo, Cosimo si mise seduto di fronte al dipinto mentre tanti particolari della sua gioventù gli passavano davanti.
Lui ancora quasi un ragazzo che viveva in dignitose ristrettezze con la madre nelle loro ville di Castello e di Cafaggiolo, ma che quando veniva in città si ritrovava proiettato dentro la vita mondana di Firenze e lei, lei la bellissima figlia di Gismondo Pucci, Lucrezia, così soavemente altera, piena di quieta dignità, ma dal sorriso capace di sciogliere ogni cuore.
Il suo, quello di un ragazzo di diciotto anni si era sciolto senza sforzo ed anche se molti lo giudicavano capace solo di passioni carnali, lui si era irrimediabilmente innamorato.
Ma anche Lucrezia aveva corrisposto al suo sentimento ed i due si erano giurati amore eterno, senza pensare che ciò che i giovani desiderano, spesso è impossibile da realizzare.
Lui le aveva regalato il medaglione che figurava nel ritratto e le aveva promesso che il prima possibile l’avrebbe chiesta in moglie a suo padre e Lucrezia ci aveva creduto, come aveva creduto a tutto ciò che lui le aveva detto.
Poi, quello che mai avrebbe potuto immaginare era accaduto, suo cugino Alessandro, signore di Firenze, era stato assassinato dall’altro cugino, Lorenzo e dopo settimane di torbidi e di incertezze, lui era stato proclamato Duca.
Ne era stato felice, certo, anche se giovane era ambizioso, ma tutti i suoi programmi erano stati stravolti.
Ciò che andava bene per un oscuro nobilotto, non poteva andar bene per un duca che aveva bisogno di alleati e l’unico modo di procurarseli era quello di contrarre un matrimonio che portasse ricchezze e parentele illustri.
Lui all’inizio non ne aveva voluto sapere, aveva recalcitrato e cercato di far valere le ragioni del cuore, ma sua madre ed i suoi consiglieri erano inorriditi ed erano stati inflessibili e così a furia di insistere, l’amore era passato in second’ordine.
Ricordava ancora il suo ultimo colloquio con la fanciulla amata, la dignità di lei che non si era abbassata a versare lacrime, anche se doveva avere il cuore straziato.
“Capisco”, aveva detto, con la voce che si incrinava appena, “capisco e non ti creerò problemi”, mentre gli occhi chiari e bellissimi, si velavano ed aveva accennato a restituirgli il medaglione.
“No, almeno quello, ti prego, tienilo tu” aveva detto lui, respingendo dolcemente la piccola mano che teneva il gioiello e lei aveva chinato il capo assentendo, ma con un’espressione che diceva quanto poco ormai potesse credere all’amore e specialmente all’amore eterno.
Dopo pochi mesi, Lucrezia era andata sposa a Bartolomeo Panciatichi, un trentenne di ottima famiglia fiorentina, da sempre filo medicea, ricco banchiere ed ottimo diplomatico.
Nessuno aveva saputo cosa si celasse dietro la liscia fronte di Lucrezia, che cosa ne pensasse di quel marito, solido e dovizioso ma ahimè noioso e un po’ pedante, anche se colto ed effettivamente tanto austero da far nascere delle voci che parlavano di una sua presunta simpatia per le dottrine riformiste.
Anche lui, Cosimo si era sposato e non si era certo trovato male con la sua bella moglie spagnola, pure lei molto austera e solenne, ma veramente una degna duchessa ed il Panciatichi era diventato uno dei suoi collaboratori più fedeli che frequentava spesso e tuttavia non era riuscito a rivedere Lucrezia che faceva vita ritirata, dedicandosi tutta al figlio che era nato da queste nozze.
Poi aveva saputo che Bartolomeo Panciatichi aveva commissionato ad Agnolo Bronzino il ritratto suo e della moglie e non aveva resistito.
Lo aveva convocato chiedendogli di poter vedere il dipinto e, ovviamente, era stato accontentato.
Ed ora era lì perso nel volto incantevole di colei che aveva tanto amato, chiedendosi se davvero aveva fatto bene a cedere alla ragion d stato.
Un colpo battuto discretamente alla porta lo fece sussultare e si affrettò a ricoprire il quadro con un panno di velluto, rispondendo poi a chi aveva bussato di entrare.
Forse era meglio smetterla con i ricordi, si disse ed andare avanti, nessun rimpianto avrebbe riportato indietro il tempo ed in fondo lui era fiero di essere il signore di Firenze.
Tuttavia, Cosimo anni dopo incrociò ancora la vita della sua amata Lucrezia e fu quando intervenne per difendere Bartolomeo e, di riflesso anche lei, dall’accusa di eresia che era stata rivolta a molti fiorentini sospetti di simpatie per le dottrine luterane.
Anni dopo, quando Bartolomeo e Lucrezia erano già defunti, il loro figlio Carlo che non si era distinto per buona condotta ed al quale era stato comminato l’esilio, fu convocato proprio da Cosimo che voleva disfarsi dell’amante Eleonora degli Albizzi che gli era venuta a noia.
A Carlo Panciatichi fu proposto di sposarla in cambio di una ricca dote e del perdono ducale ed, ovviamente, accettò.
Potenza dei casi del destino!