Figlia di tanto padre
Faceva caldo per essere metà settembre ed i tre uomini, non più giovanissimi che cavalcavano tre cavalli non proprio purosangue, sembravano soffrire per il clima umido ed appiccicoso.
“Ma come diavolo faranno i ravennati a vivere fra queste paludi?” chiese stizzosamente uno dei tre, mentre sbuffava e si asciugava il sudore dalla fronte che la berretta di panno circondava con suo evidente disagio.
“Dico, manca molto ad arrivare a questo benedetto monastero?” domandò un altro che, piuttosto pingue, pure grondava come una fontana.
Quello al centro e che sembrava il più anziano ed autorevole non rispose e con la mano fece cenno verso un poggiolo che era apparso di fronte a loro e sulla sommità del quale si stagliava una costruzione semplice ed austera, il Monastero di Santo Stefano degli Ulivi.
Poche centinaia di metri e furono davanti ad un piccolo portone munito di campanella.
Quivi giunto, l’uomo che era al centro della cavalcata, smontò faticosamente di sella e si appressò alla porta, tirando il piccolo campanaccio, il quale echeggiò dentro la costruzione con le sue note argentine.
Passi frettolosi dall’interno avvisarono i visitatori che presto sarebbero potuti entrare e togliersi dal sole che batteva implacabile.
Una finestrella si aprì ed inquadrò il volto anziano di una suora che guardò con aria interrogativa il terzetto che aveva davanti.
L’uomo che aveva tirato la campanella si accostò allo spioncino e parlottò brevemente con la suora guardiana, la quale annuì più volte, mentre frasi come “la madre superiora lo sa…già avvisata” … “certo, certo ma sapete la clausura…” “sorella siamo attesi… ed abbiamo l’autorizzazione”, si susseguivano.
Alla fine, un foglio pieno di sigilli che l’uomo teneva in mano passò in quelle della suora che evidentemente persuasa, fece scorrere i catenacci che chiudevano la porta.
I tre entrarono in quel luogo fatto per il raccoglimento e la preghiera, ammirando le perfette proporzioni del chiostro deserto e le aiuole ben tenute che circondavano un pozzo antico sul quale si posavano alcune candide colombe.
Una monaca ancor giovane, ma dal portamento austero e pieno di dignità, venne loro incontro e compresero di essere al cospetto della madre badessa, mentre si inchinavano rispettosi.
Con un cenno la suora mise fine ai loro omaggi e tese la mano per ricevere la pergamena che l’uomo attempato teneva in mano.
“Siate i benvenuti, Suor Antonia, vi aspetta nel mio parlatorio privato, ma solo voi Messer Giovanni, i vostri amici, dovranno aspettare nella foresteria, è la regola, lo sapete bene”, concluse con il tono di chi è avvezza a comandare ed a farsi ubbidire.
I tre annuirono rispettosamente e solo colui che era stato appellato con il nome di Giovanni seguì la superiora.
Entrarono in una stanza piccola ed austera dalle pareti imbiancate a calce ma i cui arredi parlavano di buon gusto unito al desiderio di raccoglimento e dove una monaca, ormai avanti con gli anni sedeva su una comoda sedia dai braccioli finemente scolpiti, ma si manteneva eretta.
Il soggolo bianco metteva in risalto la pelle di un colore che, olivastro in origine, era ormai cangiato in un giallo di pergamena, mentre gli occhi scuri e contornati di un reticolo di rughe brillavano di una grande intelligenza.
Non era mai stata bella quella donna, i lineamenti disarmonici lo rivelavano e soprattutto il naso troppo grande per un volto muliebre, ma vi era in lei un fuoco che ne gli anni, né la disciplina monacale, avevano spento.
L’uomo s’inchinò e dette l’avvio ad un fiorito omaggio dal quale si evinceva che la città di Fiorenza, o meglio la città di Fiorenza e la Compagnia di Orsammichele, si pregiavano di offrire alla reverendissima sorella Antonia Alighieri, in religione Suor Beatrice, la somma di dieci fiorini d’oro, in memoria del suo illustrissimo e degnissimo padre.
La suora non parve molto colpita dall’elegante discorso e fece tacere l’uomo con un secco cenno della mano.
“Messer Boccaccio, sì lo so chi siete, anche se tutte le banalità mondane vengono a morire davanti alle mura dei conventi, pure qualcosa della vostra fama, non proprio edificante, è arrivata fin qui”, disse, concedendosi un sorrisetto misterioso, mentre Giovanni Boccaccio la fissava attonito, stupito che una donna che viveva in clausura avesse sentito parlare di lui.
“Perdonatemi Messere, non voglio prendermi gioco di voi ed anzi vi ringrazio per esservi sobbarcato un viaggio che non deve essere stato facile”, rispose lei.
“Comunque”, riprese dopo essersi portata una coppa d’acqua alle labbra, “non capisco perché Fiorenza, dopo quello che ha fatto a mio padre, si sia presa la briga di fare questo dono a me, che vivo in clausura e lontana dal mondo…. Forse un tardivo desiderio di espiazione?”, concluse amara.
Boccaccio era davvero in difficoltà e pensare che lui con le parole ci sapeva fare, eccome, ma quella donna anziana e che lui immaginava dedita solo alla preghiera, riusciva a metterlo in crisi, come nessuno mai.
“No, certo sorella…ma vedete...” Boccaccio incespicava nelle sue stesse parole, mentre la suora lo guardava con un misto fra lo sprezzo e la compassione… “il vostro illustre genitore, è un vanto per tutto il mondo e soprattutto per la città che gli ha dato i natali…” concluse, sempre più confuso.
“Vedete, Messere, non ce l’ho certo con voi che neppure eravate nato, quando a mio padre fu comminato l’esilio”, proseguì la religiosa “quello che non perdono, anche se dovrei, visto l’abito che indosso, è il male che è stato fatto deliberatamente ad un uomo colpevole solo di amare la verità e la giustizia.”
Boccaccio annuì e non fu solo per piaggeria, ma perché le parole della donna avevano un suono di verità che era impossibile ignorare.
“Trent’anni fa, proprio in questo giorno”, proseguì implacabile la suora, “mio padre moriva di malaria, di malaria e di dolore, perché credetemi, la sua città, la sua città tanto amata gli aveva spezzato il cuore!”
All’inviato di Firenze, non rimase che assentire, maledicendo i maggiorenti fiorentini che si erano raccomandati che questo omaggio arrivasse proprio nel giorno della dipartita del Poeta.
“Lo hanno ucciso i fiorentini, e noi figli ci hanno condannati all’esilio, hanno fatto di noi dei reietti ed anche se poi il bando per i miei fratelli è stato revocato, nessuno di noi ormai si sente più facente parte di Fiorenza e vi dico Messer Boccaccio”, fece alzando la voce con un tono veemente che mal si addiceva all’abito che indossava , “io vi dico che mai la salma di mio padre tornerà nella città che tanto ha amato e che tanto male gli ha fatto, mai! Non lo hanno voluto in vita e non lo avranno in morte”, concluse, alzandosi dalla sedia per far comprendere che il colloquio era terminato.
. . Ed il povero Boccaccio che nel frattempo aveva posato la scarsella con le monete d’oro sulla scrivania della badessa, rimase lì imbambolato, rimuginando sul fatto che fare un torto ad una donna, non è mai una cosa fatta bene, specie se la donna in questione è la degna figlia di Dante Alighieri!