Fuccio mi feci
Tutti i grandi scrittori, i poeti, i nostri padri della lingua italiana e i grandi maestri della letteratura hanno scritto dell’amore. Dall’Eros e Thanatos degli antichi greci, all’Odi et Amo del poeta latino Catullo, l’Amore nella letteratura si è sempre confrontato con le altre facce della stessa medaglia: la morte, l’odio, la menzogna. E ne sono nati capolavori.
La letteratura ha dato vita agli amori più struggenti, alle relazioni più sognate e invidiate di ogni tempo: ogni lettore ha incontrato prima o poi la storia d’amore capace di farlo sognare: storie di grandi amori ostacolati, dove non mancano scalette di corda buttate dai balconi, storie di monasteri, di aiutanti volenterosi e di oppositori accaniti, storie che sono state raccontate soprattutto nel medioevo ed hanno riempito pagine e pagine di parole, di amore e di speranza.
Un tema declinato secondo tante sfaccettature; da Paolo e Francesca a Giulietta e Romeo, sempre con finali drammatici dove la morte congela l’amore tra i due giovani in un «per sempre» eterno.
Ma quali poi possano essere state le storie d’amore approdate ad un lieto fine, storie come quella di Ippolito e Dianora, (due giovani fiorentini vissuti nel XIII secolo, la cui storia d’amore vinse la resistenza delle famiglie avverse), non ci è quasi mai dato sapere.
Ecco perchè oggi è mia intenzione raccontarvela per intero, dal principio alla fine, ma sappiate anche che non comincerò a narravela con il solito: «C’era una volta…»!
La nostra storia ha pertanto inizio con una strana iscrizione, datata MCCXXIX, che recita «Fuccio mi feci».
Si ritiene che tale insegna sia stata affissa per secoli nella chiesetta di Santa Maria sopra Arno, nel quartiere di Santo Spirito, a Firenze.
Fatta edificare attorno al 1150 da Pietro pievano di Santa Maria in Pineta (o in Pruneta), la chiesa (che ormai non esiste più) si chiamò anche Santa Maria dei Bardi poiché costruita sul terreno che al tempo apparteneva a questa famiglia. Giorgio Vasari e Filippo Baldinucci ne attribuiscono erroneamente la sua costruzione a Fuccio, un architetto fiorentino, precursore di Arnolfo di Cambio. In realtà, ulteriori e più recenti ricerche storiche hanno dimostrato che ciò non fu mai materialmente possibile in quanto al tempo in cui la chiesetta venne realizzata, Fuccio si era recato a Napoli per lavorare alla costruzione di Castel Capuano e pertanto non si trovava neppure in Firenze.
Il fraintendimento nasce da un’errata traduzione del testo scritto in lingua latina che non significa assolutamente quel che d’acchito parrebbe ovvio, vale a dire: «Fu Fuccio a realizzarmi (“ME” in quanto chiesa)».
L’iscrizione ci riconduce a ben altra storia e pure a ben altri protagonisti.
Con molta probabilità (per non dire con certezza) essa fu affissa da un giovane di nome Ippolito Buondelmonti.
Al tempo, la famiglia fiorentina dei Buondelmonti aveva patronato su Santa Maria sopra Arno e quindi anche sulla chiesetta di Santa Maria, che da detta pieve dipendeva.
Il rampollo della casata, la pose in tale luogo a memoria di un fatto che, per sua fortuna, cambiò l’ esito della sua vita.
Se sia storia o sia leggenda, poco importa poiché, come dicevamo poc’anzi, le storie d’amore hanno sempre il loro fascino ed io, essendo rimasta un’inguaribile romantica, adoro le storie d’amore dal sapore shakespeariano, soprattutto se corredate da un lieto fine e ambientate in uno dei nostri più antichi quartieri cittadini.
Correva l’anno 1229 : a Firenze si covavano antichi rancori tra famiglie rivali, appartenenti a fazioni nemiche e avverse per via delle lotte intestine tra guelfi e ghibellini, allo scopo di stabilire quale delle due fazioni avesse maggior potere.
Anche le casate, dei Bardi e dei Buondemonti, non facevano eccezione.
A queste due famiglie, unite da un reciproco odio mortale, appartenevano la bella quindicenne Dianora de’ Bardi (figlia di Messner Amerigo) e l’aitante ventenne Ippolito Buondelmonti .
I giovani ebbero l’occasione di incontrarsi il 13 gennaio durante i festeggiamenti di San Giovanni, recandosi alla celebrazione del perdono, che si svolgeva appunto nella chiesa di Santa Maria Sopra Arno. Entrambi si innamorarono l’uno dell’altra perdutamente, a prima vista.
Come ogni altra coppia di innamorati i due ragazzi avrebbero voluto coronare il loro sogno d’amore celebrando un matrimonio ma le nozze erano rese impossibile dal fatto che le loro famiglie appartenevano a partiti avversari: i Bardi erano ghibellini ed i Buondelmonte, invece, erano guelfi; al tempo, le leggi erano severissime nel proibire e nel punire tali unioni tanto da dichiarare bastardi i figli generati da tali coppie.
Ippolito, nella disperazione di non poter condurre all’altare la sua bella Dianora, si ammalò gravemente di consunzione. Afflitto, arrivò a confessarsi con la madre, sostenendo con fermezza che se non avesse potuto avere in sposa la fanciulla, egli avrebbe preferito la morte alla vita.
La donna, mossa a compassione dalla richiesta del figlio, volle trovare rimedio al dolore che aveva colpito il cuore di entrambi i giovani, quindi si recò a fare visita ad una sua conoscente, la contessa de’ Bardi che era zia di Dianora: ella risiedeva in una villa fuori città, in località Monticelli.
Le due gentildonne, misero da parte ogni disaccordo tra casate e, per il bene dei due innamorati, concordarono un piano: per la domenica seguente la contessa avrebbe organizzato una giornata di festa in modo da fare riunire in un’allegra brigata le fanciulle ed i giovanotti di tutte le famiglie fiorentine più in vista.
E così avvenne: Dianora ed Ippolito, entrambi invitati, ebbero finalmente modo di ritrovarsi. Tra la musica, il banchetto e l’ euforia generale, nessuno degli invitati si accorse che i due innamorati presto abbandonarono la festa per recarsi nella cappella gentilizia della dimora, dove un pio sacerdote li stava attendendo per farli sposare in segreto, scambiarsi reciprocamente la promessa di amore eterno e farsi dono degli anelli nuziali.
Divenuti finalmente marito e moglie, come era stato loro bramoso desiderio, i due giovani organizzarono per incontrarsi la notte seguente. Al calar della tenebre, Ippolito si sarebbe recato presso l’abitazione della sua amata e per mezzo di una scala di seta, avrebbe raggiunto la sua camera da letto, entrando da una finestra.
Così, poco prima dello scoccare della mezzanotte, il giovane Buondelmonti, passato il Ponte Vecchio e raggiunta Via dei Bardi (a quell’ora deserta), si apprestava a legare la scala di seta ad un cordone calatogli da Dianora quando, inaspettatamente, sopraggiunse la ronda del Bargello.
Ippolito, che per nulla al mondo avrebbe voluto compromettere l’onore della sua donna, si diede alla fuga (con tanto di scala in mano) ma fu presto raggiunto e quindi arrestato.
All’insistente interrogatorio a cui i suoi carcerieri lo esposero, egli rispose che non aveva altro intento se non quello di entrare in casa Bardi e compiere un furto, una banale rapina: il ragazzo continuò a ripetere la sua versione dei fatti perfino quando venne interrogato dal podestà. Anche la più alta autorità giudiziaria della città, non riusciva a credere che un giovane ricco, incensurato e di ottima famiglia, potesse macchiarsi di tanta infamia. Allora, per meglio avvalorare la propria versione dei fatti, Ippolito affermo’ addirittura di avere tentato il furto allo scopo di recare danno e scorno alla famiglia nemica.
Il podestà convocò vari membri della famiglia Buondelmonti nella speranza che qualcuno tra loro riuscisse nell’intento di fare ricredere il giovane della sua confessione, ricordandogli che la mancata ritrattazione dei fatti, lo avrebbe condotto ad essere punito con la peggiore delle pene: quella di morte.
Ma Ippolito non intese ragioni ed insistette nella sua finzione; quindi fu condannato all’impiccagione.
Fiero quanto irremovibile, il Buondelmonti ascoltò la sua sentenza senza battere ciglio e quando, come era uso fare, gli fu detto che avrebbe potuto comunque chiedere una piccola grazia (l’ultima), egli chiese che come ultimo desiderio sarebbe stato gradito transitare per Via dei Bardi mentre veniva condotto al luogo del supplizio, onde riconciliarsi con quella famiglia che aveva tanto odiato. In cuor suo, però, nutriva soltanto la speranza di poter vedere la sua amata almeno un’ultima volta prima di essere giustiziato.
La grazia gli fu ovviamente accordata. Il giorno dell’esecuzione, nel recarsi al patibolo, il corteo del condannato sfilò, come stabilito, anche lungo Via dei Bardi.
Quando Dianora (che era affacciata alla finestra), lo scorse arrivare, scese a precipizio le scale fino a giungere a corsa nella strada e, gettatasi tutta scarmigliata e piangente ai piedi del suo amato, fra le guardie che l’attorniavano, proclamò a gran voce l’innocenza del condannato, implorandone la grazia e dichiarando che egli era il suo sposo.
Una gran folla accorse: le due Casate furono convocate mentre i due ragazzi venivano condotti alla presenza del podestà.
Una volta accertati i fatti, la Signoria tutta si espresse in favore dei giovani innamorati, imponendosi sull’antico odio tra le due famiglie e stabilendo la validità della loro unione; quindi ritirò la sentenza contro Ippolito.
L’inevitabilità dei fatti portò ad una riconciliazione tra le famiglie Bardi e Buondelmonti, ed i due giovani poterono vivere felici e contenti, fino alla fine dei loro giorni.
Ecco perché si ritiene che Ippolito, a memoria del fatto, fece scolpire quella lapide sull’architrave della chiesa, lapide nella quale egli intese alludere a Vanni Fuccio, un ladro pistoiese reso tristemente celebre da Dante Alighieri nel canto XXIV dell’Inferno, quale: «Ladro alla sacrestia de’ belli arredi» in quanto colpevole di avere svaligiato la sacrestia della Chiesa di San Jacopo a Pistoia (niente a che vedere quindi con l’architetto omonimo di cui abbiamo parlato in principio).
E proprio volendo alludere a quel furto famoso, Ippolito volle scrivere: « Fuccio mi feci – ossia – “mi finsi ladro”, pur di salvare l’onore della mia donna»!
La vicenda di Ippolito e Dianora ebbe grande risonanza. Di questa bella storia se ne trova traccia a partire dalla seconda metà del Quattrocento in manoscritti e in opere a stampa, oltre che in varie interpretazioni dei secoli successivi fino a tutto l’Ottocento.
E come sarebbe potuto essere diversamente?
In una Firenze sopraffatta dalle lotte intestine mosse tra fazioni politiche divise in Guelfi e in Ghibellini, tra accese rivalità, l’amore di questi due giovani emerse per portare la pace e metter in evidenza i buoni principi ed i sani valori di cui non si dovrebbe mai dimenticare l’importanza: il senso dell’onore dimostrato dal giovane Ippolito (disposto a farsi giustiziare pur di non rivelare l’amore per la donna di una famiglia avversa alla sua) e la grande forza dei sentimenti dimostrata dalla giovanissima Dianora, disposta a sua volta, a sfidare la famiglia pur di salvarlo, gridando pubblicamente il suo amore.
Un’altra bella storia, custodita nel cuore della nostra amata città!