Lucrezia, un magnifico amor cortese
Avvicinandosi alla tavola di Sandro Botticelli dipinta nel 1470, intitolata Fortezza, oggi custodita presso la Galleria degli Uffizi a Firenze, non si può non venire soggiogati dalla bellezza di quel volto quasi sognante, avvolto nel colore e nel plasticismo, un capolavoro d’insieme volutamente composto eppure straordinariamente ricolmo di sentimento. Nello specifico, quel soggetto femminile incarna una delle sette virtù; la Fortezza appunto.
La splendida figura faceva originariamente parte di un lavoro commissionato ad Antonio del Pollaiolo il quale avrebbe dovuto fungere da decoro alle spalliere degli stalli riservate ai giudici del Tribunale della Mercanzia (l’organo che soprintendeva al tempo alle corporazioni di arti e mestieri di Firenze e giudicava i reati di natura commerciale), nella Sala delle Udienze della sede in piazza della Signoria. La Bottega del rinomato artista fiorentino aveva già realizzato le altre sei virtù ma non ricevette incarico per eseguirne pure l’ultima, che fu invece lasciata alla mano di un giovane di talento, tale Sandro Botticelli, a seguito di una calda raccomandazione fatta da un magistrato della Mercatura, Tommaso Soderini: a sua volta tale commessa gli era stato suggerita da Piero de’ Medici in persona.
Nel dipinto si riconosce Lucrezia Donati, una donna di indiscussa bellezza della Firenze dell’epoca che a tanti aveva rapito, anche solo per un attimo, già allora lo sguardo.
Lucrezia era la figlia di Manno Donati e discendeva da una famiglia di nobile e antico retaggio che però oramai per questioni economiche versava in forte decadenza, al punto tale che da tempo non riusciva più ad imporre all’interno del panorama fiorentino le proprie volontà, contrariamente a quanto stavano invece facendo altre dinastie che di giorno in giorno, invece, rafforzavano il proprio potere, come gli stessi Medici o la famiglia Pazzi, o come avevano fatto in altri tempi gli Albizzi.
I Donati ruotavano pertanto, nell’orbita di altri personaggi allo scopo di potersi ritagliare ancora uno spazio nell’ambito mercantile. Ecco perchè essi concedevano, ogni qualvolta glielo si richiedesse, il loro incondizionato appoggio alla famiglia Medici.
Eppure, oltre a questo pare che ci fosse anche molti di più: si racconta che il giovane Lorenzo, ancora scevro dalle preoccupazioni della Repubblica, essendo suo padre Piero ancora vivo, sebbene afflitto dalla gotta e nell’ultimo periodo poco propenso a mostrarsi in pubblico, non potesse fare a meno della compagnia proprio della bella Lucrezia.
Dai contemporanei ella era considerata bellissima. Ammaliava chiunque, dallo stesso Piero di Cosimo fino a Poliziano; con la sua grazia disarmante ed un’innata semplicità, ella non sarebbe passata inosservata a nessuno, nemmeno al giovane Leonardo da Vinci.
Le cronache del tempo ci riferiscono in proposito di un fastoso torneo, una Giostra, che rallegrò Firenze il giorno 7 febbraio dell’anno 1469, in occasione delle nozze del poeta Luigi Pulci.
Era l’epoca in cui la figura del cavaliere andava scomparendo quale espressione prettamente legata al concetto di guerra e di guerriero, in quanto sui campi di battaglia erano gli archibugi a farla da padroni e le spade servivano ormai a ben poco per difendersi; ma il simbolo del prode condottiero, dell’uomo vestito della sua armatura di ferro, ardito e fiero in sella al suo corsiero, si ammantava d’un significato tutto nuovo: l’ideale cavalleresco e l’amor cortese.
E allora ecco che la Giostra, in occasione dei matrimoni o delle feste, diventava il campo di battaglia dell’uomo d’alto rango per fare bella mostra di sé. Le giostre cavalleresche, facevano tutti contenti in quanto lo spettacolo fungeva pure come un potente mezzo di distrazione per il popolo. Esse pertanto divennero di gran moda in tutta la penisola e non soltanto a Firenze.
E proprio nel rispetto di quegli ideali cavallereschi di amor cortese, ai giochi di quel rigido febbraio del 1469, neanche a dirlo, partecipò anche il giovane Lorenzo. E vi partecipò combattendo per la sua dama, Lucrezia.
In piazza Santa Croce, il giovane Medici sfidò altri rivali coraggiosi e prestanti sfoggiando una ricchissima tenuta, la più sfarzosa di tutte; le cronache raccontano che lo stendardo di Lorenzo avesse impressi i lineamenti di una figura femminile, forse quelli di Lucrezia.
Sull’elmo aveva una corona di violette, donatagli con molta probabilità dalla sua amata. La violetta pare resistere bene al clima invernale e la tradizione la vuole messaggera d’amore.
Ed una delle frecce di Cupido cadde proprio su di una violetta…
Naturalmente, sulla sua vittoria non si discusse neanche; era pur sempre un Medici, la nuova figura emergente di Firenze, come testimoniano le ottave de La Giostra di Luigi Pulci ed egli, l’erede della casata, dedicò la vittoria alla donna amata.
Questa non fu la sola occasione di festa e celebrazione per Lucrezia: nell’ambiente mediceo erano frequenti i balli e i festeggiamenti in suo onore, durante i quali la sua bellezza e la sua eleganza furono oggetto di ammirazione ma anche di invidie e sospetti. Ma, nonostante le voci, nessuna testimonianza certa riuscì a provare mai che i due giovani fossero anche amanti.
Purtroppo però per Lorenzo, strali d’amore a parte, la vita sarebbe dovuta cambiare nel giro di pochi anni: presto avrebbe dovuto accollarsi il peso del comando e alla morte di Piero sorreggere il fardello della famiglia.
E così avvenne: da quel momento non ci fu più posto per le passioni adolescenziali.
Fu sua madre, Lucrezia Tornabuoni, a scegliere per lui, in moglie la tenera Clarice Orsini, suggellando una bella e proficua alleanza con la famiglia romana e facendo ben attenzione nel metterlo in guardia sul non dover più frequentare (almeno in pubblico) altre donne all’infuori di Clarice.
E questo la dice lunga sul fatto di quanto fosse chiacchierata la loro liason, la quale probabilmente e ciò nonostante, durò invece per tutto il resto delle loro vite.
A differenza di Clarice, Lucrezia fu una dama colta che sapeva apprezzare i modelli classici dell’umanesimo neoplatonico fiorentino. Ebbe buoni rapporti con il circolo di Lorenzo, anche se non vi partecipò quasi mai direttamente ma fu la destinataria delle dediche di molte loro composizioni.
Dunque, l’amore tra Lucrezia e Lorenzo fu un amore platonico, di quelli che fanno palpitare il cuore senza mai sfiorarsi, un legame flebile e tenace, un nodo mai stretto che però mai si sciolse.
Un gioco letterario e intellettuale, un amore cortese (appunto), fermo sulla carta: si, sulla carta intesa proprio come composizione poetica perchè Lorenzo, da noto amante della letteratura quale fu e poeta anch’esso, continuò a dedicare i suoi sonetti proprio a lei.
Lucrezia fu la sua musa ispiratrice – senza mai essere nominata – anche dei versi d’amore che costituiscono il nucleo iniziale del Canzoniere laurenziano. Il suo nome e la sua figura sono richiamati da figure allegoriche, simboli, giochi verbali anche nel Corinto, un poemetto bucolico scritto da Lorenzo a 15 anni poi rielaborato intorno al 1486, nel quale il Magnifico canta il suo amore per Lucrezia, immaginandola come la ninfa Galatea, «colei che ha la pelle bianco latte».
Secondo il mito greco, Galatea era una delle ninfe delle acque (Nereidi) che per tener vivo l’amore del suo amato Aci – il quale era stato ucciso da un Polifemo accecato dalla gelosia – pregò gli dei affinché egli venisse trasformato in sorgente; dal quel momento l’acqua che vi defluì, avvolse Galatea in un abbraccio eterno, e l’amore trionfò.
Al pari del mito greco, probabilmente Lorenzo si sentì avvinto nell’abbraccio di questo amore casto e puro per tutta la vita, suggestionato d’una passione mai sopita quale può essere soltanto quella dell’amore che un uomo può nutrire per la sua donna, forzosamente costretto a trascurare, o ancor peggio abbandonare, per via degl’impegni politici e delle alleanze economiche.
Ma di fatto, Lucrezia rimase la voce del suo cuore…
Se questo non bastasse, come indizio ricordiamo anche che fu la stessa famiglia Medici ad occuparsi della sistemazione della Donati, affinché Lucrezia andasse in sposa a Niccolò Ardinghelli (famiglia nobile, addirittura di origine sassone, che la storiografia vuole giunta in Italia al seguito dell’imperatore Ottone III e poi installatasi a Firenze, San Gimignano e a L’Aquila). E così fu.
In un carteggio di missive datate 1465 attribuite ad Alessandra Macinghi Strozzi (una parente di Niccolò Ardinghelli), la donna sostiene che era stato lo stesso Lorenzo a combinare il matrimonio tra Lucrezia e Niccolò. E ancora, un anno più tardi, in una lettera di Gismondo della Stufa ad un Lorenzo in viaggio verso Roma, si accenna a come Lucrezia non volesse uscire di casa, dal momento che lui non fosse a Firenze.
Pare evidente che l’amico fornisse informazioni a Lorenzo sulla sua Lucrezia, fatto giustificabile solamente se si prende per vero il legame tra i due.
Lucrezia rimase vedova nel 1496. Niccolò infatti si spense morendo in esilio. Del matrimonio restavano quattro figli: uno tra loro, Piero, era stato tenuto a battesimo da colei che sarebbe dovuta essere la rivale in amore: Clarice Orsini, la moglie di Lorenzo.
Lucrezia si spense poco dopo, nel 1501, all’età di cinquantaquattro anni, nove primavere dopo la scomparsa del suo Lorenzo, portando per sempre con sé la verità su quell’amore antico, dal sapore moderno e un poco shakespeariano, facendoci ancor oggi fantasticare e indagare su quei segreti, quegli sguardi … quelle parole non dette!
«AMOR VUOL FE, E DOVE FE NONNE, AMOR NON PUÒ’».
(Luigi Pulci)
Con questo accorato “racconto” scritto da Barbara Chiarini, si continua a sognare e sospirare sulla passione platonica e perenne di Lorenzo per Lucrezia.
Desidero ringraziare la Dott. ssa Chiarini per le interessanti storie pubblicate, vere e proprie lezioni di arte storia e cultura, che leggo sempre con grande attenzione e piacere.
La stupenda verità di un personaggio fulcro della vita fiorentina.