Dall’ombra del Cupolone alle Piramidi
“Non appena gli occhi si abituarono al barlume di luce, l’interno della camera si profilò progressivamente davanti a noi, con il suo strano e meraviglioso miscuglio di straordinari e bellissimi oggetti ammucchiati uno sull’altro”
(Howard Carter)
Quando ai primi di novembre del 1922 l’egittologo britannico Howard Carter e il suo finanziatore, Lord Carnarvon (sì, proprio quello di Highclere Castle dove tanti anni più tardi sarebbero state girate le fortunate serie e i film Downton Abbey!) scoprirono la tomba di Tutankhamen non potevano ancora immaginare quali ricchezze li attendessero all’interno, ma, soprattutto, non potevano neanche lontanamente immaginare quale effetto quella stupefacente scoperta avrebbe avuto in tutto il mondo. Gli scavi della tomba nella Valle dei Re, nei pressi dell’antica Tebe (oggi Luxor) durarono ben otto anni di fatica e montagne di soldi spesi, che furono poi ampiamente ripagati dalle ricchezze e dai tesori che vennero alla luce. Ogni istante dell’entusiasmante scoperta fu documentato dal fotografo britannico Harry Burton.
Ma come per tutte le belle storie, partiamo dal principio.
Erano una comunità numerosa e parlavano un buffo toscano con accento anglosassone tanto che i fiorentini, con la loro tagliente ironia, li avevano soprannominati “anglobeceri“. Erano gli stranieri che avevano scelto di soggiornare a Firenze. Si tenevano un po’ ai margini della vita sociale e politica italiana, però frequentavano i caffè letterari, facevano gossip nei salotti delle loro abitazioni, leggevano le riviste straniere presso il Gabinetto Vieusseux, passeggiavano al parco delle Cascine e ammiravano le cappelle affrescate nella basilica di Santa Croce.
Tutto aveva avuto inizio a partire dal XVII secolo con il Grand Tour, quel viaggio di formazione che i giovani e ricchi aristocratici europei avevano preso abitudine ad intraprendere nell’Europa continentale per conoscerne l’arte, la storia e la politica. L’Italia, per il suo immenso patrimonio artistico, era una meta privilegiata. In particolare, Roma, Napoli e Venezia nel corso del Settecento si erano affollate di gentiluomini inglesi, francesi e tedeschi giunti alla scoperta dell’arte classica.
A partire dall’Ottocento fu però Firenze a suscitare un crescente interesse, una riscoperta iniziata anche grazie al Romanticismo e agli studi di John Ruskin, che esaltava l’arte due-trecentesca di Giotto e Masaccio. Frotte di angloamericani si riversarono, dunque, in città, non solo per le sue bellezze artistiche, ma anche perché lì si poteva vivere nel lusso a minor costo rispetto alla madrepatria, perché il clima mite leniva malattie polmonari come asma e tubercolosi e perché si potevano farebuoni affari esportando arte e artigianato locali. Si creò così negli anni una cospicuacomunità; si diceva che fossero addirittura un terzo della popolazione, questi Anglobeceri, sicuramente un dato esagerato ma che rende bene l’idea della loro massiccia presenza. Ben presto ad essi si aggiunsero russi, tedeschi, olandesi, belgi, svizzeri e polacchi.
Accogliendo tante persone di nazionalità diverse, Firenze divenne di fatto una città cosmopolita, vale a dire un luogo in cui ai costumi nazionali e regionali si andavano a sovrapporre caratteri universali per l’affluire di gente da ogni parte del mondo. Coloro che appartenevano a famiglie agiate e disponevano di molte ricchezze presero a dedicarsi allo studio dell’arte, al collezionismo, al mecenatismo in genere. Altri si impegnarono sul fronte dell’assistenzialismo. Ma i più intesero fare fortuna avviando esercizi commerciali.
E qui arriviamo al protagonista della nostra storia! Henry (Harry) Burton era nato a Stamford nel Lincolnshire il 13 settembre 1879, figlio di William Burton (1849 – 1923), un ebanista, e di Annie Hufton (1849 – 1917). Era il quinto di undici figli, otto maschi e tre femmine. Poco si sa dei suoi primi anni di vita. Data la sua origine operaia e la famiglia molto numerosa, la sua educazione avrebbe dovuto essere rudimentale, ma sembra più probabile che, in qualunque modo egli l’abbia ricevuta, essa sia stata solida.
Verso i quattordici anni, per ragioni che rimangono oscure, fu scoperto dallo storico dell’arte del Rinascimento italiano Robert Henry Hobart Cust (1861-1940), figlio di Robert Needham Cust, un orientalista, appartenente a una famiglia famosa in politica, in ambito giornalistico, nella storia dell’arte e nell’amministrazione dello stato grazie ai forti legami intrattenuti con l’India.
Il ragazzino fu portato, quindi, a vivere con lui e da lui educato. Fu così che, una volta che fu cresciuto, cominciò a lavorare per Robert. Anche Cust, faceva parte di quel folto gruppo di Anglobeceri che avevano deciso di trasferirsi in Italia, e più precisamente a Firenze. Nel farlo, portò con sé il giovane Burton, in qualità di suo segretario.
Nel 1896 i due intraprendono il loro viaggio per raggiungere l’Italia. Dopo avere soggiornato in diverse città si stabiliscono, infine, a Firenze. Burton ha da poco compiuto diciassette anni e ormai svolge abitualmente la mansione di segretario al servizio di Cust.
La città del Giglio si rivelerà l’ambiente ideale per il giovane Harry, in particolare per tre motivi: in primo luogo – lo ribadiamo – Firenze era un importante centro culturale a livello europeo; pertanto, la città era affollata di personaggi famosi. Per questo,infatti, egli poté facilmente venire in contatto con i circoli più elevati del mondo dell’arte di quel tempo. Inoltre, Cust aveva amicizie altolocate. Fu lui a presentarlo a Bernard Berenson. Al proposito, negli archivi fotografici della biblioteca Berenson ci sono dieci riproduzioni fotografiche di dipinti del XIV e XVI secolo, opera di Burton.
In secondo luogo, Firenze era sede della ditta Alinari, specializzata in riproduzioni fotografiche di opere d’arte. Questa divenne la passione di Burton, benché non sia chiaro quando diventò fotografo: Hill afferma che era già famoso come tale nel 1903. Dato il costo delle attrezzature fotografiche, è probabile che per cominciare, egli fosse stato equipaggiato propio da Cust. È questo il periodo in cui Hill descrive il suo lavoro come fotografo d’arte con queste parole: “immagini finemente bilanciate con l’originale – fotografie isocromatiche che esprimono i corretti valori di colore relativi dei dipinti originali e foto che offrono una chiara resa dei dettagli di composizione, consistenza e fattura.”
In terzo luogo (ultimo ma non ultimo!), Burton incontrò a Firenze un milionario americano con un debole per l’egittologia, tale Theodore Davis (1837-1915) il quale, dopo aver passato l’inverno in Egitto a scavare alla ricerca di antichità, ogni primavera se ne tornava a Firenze. Da questo momento in poi, Burton diventerà uno dei protetti della famiglia Davis e viaggerà sempre con loro.
Sappiamo che Burton prese residenza a Firenze in Via de’Bardi al numero civico 25.
Fu qui da noi, all’ombra del Cupolone, che il suo talento di fotografo si rivelò e sbocciò. Interrotto il suo tirocinio di segretario personale di Cust, ma sempre da lui sovvenzionato economicamente, il giovane si deciderà ad avviare un’attività tutta sua aprendo pure uno studio fotografico. E’ il 1860 quando vi è traccia che egli abbia iniziato a produrre immagini utilizzando principalmente la tecnica dell’albumina. In seguito, Harry si specializzerà nella fotografia di grandi dimensioni e di panorami, utilizzando macchine fotografiche di grandi formati.
Le sue fotografie sono considerate un’importante testimonianza storica e artistica del periodo, e sono state esposte in numerose mostre e collezioni private e pubbliche. Tra le sue opere più famose ricordiamo il panorama di Firenze visto dal campanile di Giotto e il ritratto di Dante Alighieri nel Chiostro Verde della Basilica di Santa Croce.
Ma soprattutto, è la città di Firenze che lo ricorderà per i suoi splendidi scatti fatti ai monumenti e ai verdeggianti paesaggi fiorentini. Non di meno egli sarà un professionista apprezzato per i ritratti di personalità illustri dell’epoca, come ad esempio il ritratto del poeta inglese Robert Browning.
Il soggiorno fiorentino del nostro Segretario-fotografo si concluderà nel 1910, quando Cust tornerà in Inghilterra per sposarsi, e Burton deciderà di raggiungere Davis in Egitto, sempre in qualità di fotografo, per registrare scavi e reperti. Ha da poco compiuto trentun anni ma è adesso che il successo come miglior fotografo archeologico di tutti i tempi lo attende!
In Egitto egli supervisionerà tantissimi scavi e contribuirà anche allo sgombero di diverse tombe, come la KV3 (forse quella di un figlio di Ramses III), la KV47 (tomba del Faraone Siptah, figlio di Seti I) nel 1912 e la KV7 (sepoltura di Ramses II) tra il 1913 e il 1914.
Quando nel 1914 Davis rinunciò al permesso di scavi, convinto che nella Valle dei Re non ci fosse più nulla da trovare, la concessione venne, infine, acquistata dal Lord Carnarvon, che, su suggerimento dell’allora direttore del Museo Egizio de Il Cairo, Gaston Maspero, si fece affiancare dall’archeologo Howard Carter, convinto che la Valle dei Re non avesse ancora esaurito tutti i suoi tesori, mentre Burton divenne il fotografo ufficiale del Metropolitan Museum of Art (MET), collaborando a stretto contatto con Herbert Winlock, che conduceva al tempo diversi scavi in Egitto.
Trascorsero così diversi anni in cui le meravigliose foto del fotografo inglese apparvero spesso sul Bullettin of Metropolitan Museum of Art. A volte, purtroppo, non accreditate. Il 1922, però, fu l’anno che porterà una svolta nella vita di Harry. Con il senno di poi, potremmo dire non solamente nella sua di vita, bensì in quella di tutti noi! Infatti, il 4 novembre del 1922 Howard Carter e il suo finanziatore Carnarvon effettuarono la scoperta che stravolgerà il mondo dell’archeologia, facendo tornare alla luce per la prima volta nella storia la tomba intatta di un Faraone, il giovane Tutankhamon (KV62).
Da questo momento, la vita del fotografo inglese si intreccerà inesorabilmente a quella del Faraone più misterioso della storia d’Egitto, per non districarvisi mai più. La scoperta di una tomba misteriosa intatta e perdipiù ricca di favolosi tesori colpì l’immaginazione di milioni di persone in tutto il globo innescando una vera e propria egittomania che andava dal desiderio insopprimibile di visitare il luogo della scoperta (per chi poteva permetterselo!) o quantomeno di poter accedere a belle immagini dei reperti e dei gioelli trovati, alla moda che ricalcava quella dell’Antico Egitto, all’arredamento egittizzante, alle trame dei film ispirate a eventi del remoto passato faraonico.
Ma come fare, dunque, per placare l’improvvisa “fame d’Egitto” che sembrava far impazzire tutto il mondo e poter continuare a lavorare con la necessaria tranquillità? Howard Carter e Lord Carnarvon si trovarono davanti a un dilemma di enorme portata e decisero di risolverlo come segue. Poiché sarebbe stato davvero impossibile continuare a scavare e a trattare i reperti con la dovuta accortezza sotto gli occhi di migliaia di curiosi e decine di fotografi, Carnarvon si accordò con il Times per la documentazione fotografica esclusiva di tutti i lavori nella tomba: sarebbe stato poi il Times a “passare” le fotografie agli altri giornali e alle riviste. A questo punto, non restava che trovare un fotografo competente e già avvezzo a fotografare reperti in condizioni spesso molto difficili (immaginatevi di dover scattare una fotografia in un ambiente piccolo, umido e asfissiante in cui dovete stare attenti a come vi muovete per non urtare qualcosa di preziosissimo e molto antico…).
Chi meglio di Harry Burton già collaboratore del Metropolitan Museum poteva condurre in porto in maniera impeccabile un’opera così titanica? Detto fatto, la richiesta di “prestito” del fotografo fu subito inoltrata al Metropolitan che, con grande spirito di collaborazione e colleganza, accettò che Burton lavorasse con l’équipe di Carter e Carnarvon per tutto il tempo necessario a documentare scavi e reperti. In poco meno di dieci anni, Burton si ritroverà a scattare oltre tremilaquattrocento foto, immagini che adesso sono conservate al MET, oppure al Griffith Institute dell’Università di Oxford, molte delle quali sono diventate famosissime per essere state pubblicate molte volte ed essere state riprodotte in varie mostre in giro per il mondo.
Per il suo meraviglioso lavoro Burton utilizzò lastre di vetro che gli permisero di ottenere delle immagini di altissima qualità. Per l’illuminazione, oltre a quella elettrica portata all’interno della tomba, il fotografo utilizzò un ingegnoso sistema di specchi, sfruttando una tecnica tra l’altro già usata nell’antico Egitto. Come camera oscura, il fotografo inglese utilizzò una tomba lì vicina, precedentemente ripulita: la KV55.
Questa scoperta detiene il record dell’innovazione: oltre ad essere la prima in cui è stato applicato un vero e proprio metodo scientifico durante lo scavo e la successiva documentazione e conservazione in loco degli oggetti più fragili, è anche la prima nella quale sono state effettuate delle riprese. Burton imparò addirittura ad utilizzare una cinepresa (che gli era stata prestata dalla Samuel Goldwyn Productions). La utilizzò, infatti, per registrare il momento emozionante dell’apertura del sarcofago, nonché per mostrare alcuni oggetti mentre venivano rimossi dalla tomba. Le sue lastre fotografiche sono considerate, ancora oggi, le migliori fotografie archeologiche mai realizzate. In effetti, ben oltre dall’essere aridi documenti scientifici, le sue immagini trasmettono tutta l’atmosfera di una tomba chiusa da più di 3 millenni: dalle statue ai loro dettagli, da bastoni, amuleti e sandali, fino alle splendide offerte floreali lasciate dalla giovane moglie come commovente tributo per il Faraone defunto.
Insieme al lavoro alla tomba di Tutankhamon, Burton continuò ovviamente la sua collaborazione con il Metropolitan Museum of Art, che aveva un’altra concessione di scavo a Deir el-Bahari, sull’altro versante della Valle dei Re.
Quando i lavori alla KV62 terminarono, Harry Burton e Howard Carter rimasero in ottimi rapporti, al punto che l’archeologo inglese lo nominò addirittura come suo esecutore testamentario. Dal 1931 al 1934 Burton continuò a lavorare sempre per il MET a El-Lisht, a 60 Km da Il Cairo.
Quando il Museo cessò i principali scavi, il fotografo rimase in Egitto, continuando a registrare monumenti e manufatti fino al 27 giugno 1940, giorno della sua morte all’età di 60 anni. È sepolto ad Asyut, in Egitto, nel cimitero americano.
Burton, quindi, non fece più ritorno in Italia, tanto meno a Firenze, ma la città del Giglio ed il suo popolo non hanno certo dimenticare i frutti del suo prezioso soggiorno.
Chi fosse interessato a saperne di più sulla scoperta della tomba di Tutankhamen può leggere il bellissimo libro di Christina Riggs “Vedo cose meravigliose” (Bollati Boringhieri, 2022)
Grazie, articolo davvero interessante! Spero di leggerne altri del genere!
Bellissimo racconto. Nonostante sia un appassionato di fotografia, le mie conoscenze in merito a questo fotografo, erano assai parche. Complimenti alle due scrittrici