La mia campagna – IV episodio
Una villeggiatura d’altri tempi
4° episodio
Non mancavano soltanto le strade. Mancava anche l’elettricità.
A dire il vero, papà più di una volta cercò di fare qualcosa perché fosse installata una linea elettrica, anche a spese dei singoli utenti, che sarebbe dovuta provenire o dal piano o dalla via che da Castagneto conduce a Sassetta. Molti proprietari erano d’accordo nell’assumersene gli oner, ma, comunque, la linea sarebbe dovuta passare dal Crocino dove la vecchia Emma Maggi abitava, e non ci fu mai verso di convincerla. “E so’ nata ‘on le ‘andele” diceva “e mi garba di mori ‘on le ‘andele!”. Beh, chi si contenta gode!
I contadini usavano i lumi a petrolio. I miei ben presto li sostituirono con i lumi a gas di petrolio che a Roma si potevano trovare, con annessi ricambi, solo da Baccianini, in via dell’Umiltà. Ne avevamo due, uno per illuminare il soggiorno e l’altro per la cucina. Papà tirava avanti e indietro una pompetta posta sul fianco della lampada che assomigliava ad una lanterna, finché non si “accendeva” all’interno la reticella d’amianto, a forma di piccola lampadina. La luce era vivida e bianca. Attratti da questa, numerosi insetti, delle più varie specie e dimensioni, molti dei quali strepitosamente ronzanti, entravano in casa attraverso la porta-finestra del soggiorno, aperta sul giardino. Sfarfallavano attorno al lume, attaccato con un gancio al soffitto, che penzolava proprio al centro della stanza, sopra al tavolo da pranzo. E quando cenavamo, molti di loro, bruciati dal calore, precipitavano in picchiata nei piatti e nei bicchieri. I miei, con la massima noncuranza, raccoglievano con le posate le povere vittime, ponendole ai bordi del piatto. Io, più schizzinosa di loro, cercavo di proteggere il piatto con le braccia ed il bicchiere con la salvietta. Ma, quando mi andava male, rifiutavo di mangiare e di bere.
Tuttavia il vero supplizio era per me la vista dei rotolini di carta moschicida, anch’essi penzolanti dal soffitto, con tutte le mosche spiaccicate sopra e ronzanti nell’agonia! “Che ci voi fare” diceva mamma “o che ci vogliamo far mangiare vivi dalle mosche? ‘Un lo sai che stiamo vicini alla stalla?”. Ma furono presto eliminati… Nelle camere da letto, al primo piano, ci si andava con le bugie e le candele e, prima di coricarci, si svolgeva ogni sera una cerimonia, chiamata la “rivista”. Consisteva nell’ispezionare, a lume di candela, le intere pareti della stanza, un tratto per volta, al fine di controllare che non ci fossero millepiedi o addirittura scorpioni, soprattutto in vicinanza dei letti. Per difenderci dalle zanzare bruciavamo gli “zampironi”.
Mancava l’acqua corrente. Per quella potabile provvedevano i contadini, andandola a prendere ad una fonte in paese, con il carro dei buoi, carico di damigiane. Per gli altri usi, gli stessi contadini ci rifornivano giornalmente con l’acqua della cisterna che ci versavano in un grandissimo orcio di terracotta, posto in cucina, vicino all’acquaio. Il bucato lo facevano le contadine con la cenere (non ho mai capito come si possa lavare “con la cenere”). I panni, poi, non venivano appesi ad asciugare ma venivano stesi, al sole, sull’erba di un prato davanti casa ed io temevo sempre che ci facessero sopra la pupù le galline… Ma non è mai successo, oppure non l’ho mai saputo.
Noi ci lavavamo nelle camere, in ognuna delle quali si trovavano quegli “aggeggi” di cui mi sfugge il nome, di ferro battuto, che sostengono uno specchio ovale, la catinella e le brocche di smalto. Ora se ne trovano nei negozi di “cose vecchie” e sembra raffinato tenerli nelle case di campagna (sotto ad un rubinetto, però!). L’acqua piovana era tremendamente scivolosa: quando ci si lavava si aveva sempre l’impressione di restare insaponati e di non riuscire mai a risciacquarsi del tutto. E spesso ci si trovavano i moscerini galleggianti, e la cosa mi dava un po’ di fastidio. Mamma mi consolava: “L’acqua piovana fa bella la pelle!”; ma dai risultati non si direbbel… Del resto, come si poteva far caso ai moscerini quando la sera capitava spesso di veder entrare in casa dal giardino i “boddicchi” (piccoli rospi) e, talvolta, anche topolini e pipistrelli? Certo, in quelle occasioni tutti strillavamo un po’, o salivamo sulle sedie o ci riparavamo il capo. Ma poi gli intrusi venivano cacciati senza eccessive tragedie.
Non c’erano servizi igienici. C’era uno stanzino, da noi chiamato impropriamente e immeritatamente “gabinetto”, in cui faceva bella mostra di sé una strana costruzione di mattoni, bassa, a forma di parallelepipedo, attaccata ad una parete, la cui parte superiore era rivestita da una lastra di marmo bianco. Al centro della lastra si apriva un grosso foro tondo, chiuso da un tappo, anch’esso di marmo, manovrabile con una grande maniglia di Ottone. Quel foro, mi dicevano, era collegato al “pozzo nero”. Accostate ai muri alcune brocche d’acqua. Io non immaginavo come se la sbrigassero i grandi, per fortuna io avevo per terra il mio vasino personale. Eppure, pensavo, c’è chi sta peggio di noi: infatti avevo notato che uno “stanzino” del genere non c’era nella casa dei contadini. “Ma loro come fanno?” chiedevo a mia madre e lei, sempre rassicurante, la tagliava corta: “Andranno dietro l’aia!”. “E se piove?” “Aspetteranno che spiova!”. Non mi raccontava storie: più tardi vidi con i miei occhi che la Dusola qualche volta “dietro l’aia” ci andava per davvero!
Poi scoprii che, a fianco della finestra di una delle loro camere sul retro, partiva un tubo largo, in muratura, chiuso in cima da un tappo di legno, fermato con uno spago e questo tubo finiva direttamente sotto terra, nel “pozzo nero”.
Non c’era il gas e nemmeno le bombole di gas liquido. In cucina c’era un bel “focarile” con carbone, brace, carbonella ecc. Spesso venivo addetta a mantenere vivo il fuoco con un’enorme ventola di penne di gallina che mi sembrava la parente povera del ventaglio di piume di struzzo di nonna, quand’era giovane, conservato in un cassetto del “Sécretaire” del salotto.
Non c’era il telefono, non c’era la radio, non c’erano i giornali ma questi, in fondo, erano i guai minori.
Anche per il mangiare ci si arrangiava. La massaia ogni due giorni faceva il pane anche per noi. Da lei si compravano uova, polli, piccioni e conigli. Mangiavamo linsalata, i pomodori e la frutta del podere: pesche, uva, molte sorbe, micidiali per la stitichezza, peraltro bilanciate da una quantità incredibile di fichi. Quando c’era a Castagneto mio zio Minuccio, lui e mamma facevano a gara a chi mangiava più fichi. Si ingozzavano, e poi, quando non ne potevano più, contavano i piccioli rimasti nel piatto. Ricordo la volta che vinse mamma che ne aveva mangiati cinquantanove. Dopo si sentirono male tutti e due!
Di alberi di fichi ce n’erano infatti parecchi e di tutte le qualità. Io ci sarei salita sopra molto volentieri per mangiarli direttamente sulla pianta, ma erano sempre pieni di formiche rosse che pizzicavano maledettamente. In luglio maturavano i dolcissimi “albiceri”, conosciuti solo più tardi quando, venduto il villino di Miramare, passavamo a Castagneto l’intera estate.
In agosto e settembre, invece, maturavano i pregiatissimi “dottati” ed i rossi “bruciotti”.
A proposito dei fichi, i contadini mi insegnarono questa storiella: “Fichi bruciotti per i giovanotti, fichi dottati per i maritati, fichi selvatichini per i bambini e fichi verdoni per i padroni”.
Ma loro i verdoni non ce li hanno mai portati, per fortuna! Anche perché nel podere non ce n’erano…
Ogni giorno ci portavano corbellino di fichi appena colti e ritiravano quelli avanzati dal giorno precedente per darli ai maiali (“Questi ‘un so’ più boni e si portano al cicio!?). Il venerdi arrivava dal paese Pomino del pesce, con una cassettina di legno, quasi sempre piena di sole sardine. Si annunciava scampanellando e si portava appresso tutti i gatti della zona che miagolavano disperatamente. Per il resto delle provviste andavamo la domenica in paese. Ne approfittavamo per ascoltare la messa, spedire lettere e cartoline e, evento atteso per tutta la settimana, comprare il giornale! lo non mancavo mai di mandare una cartolina alla mia maestra, e, dopo, alla professoressa d’italiano. Le cartoline erano sempre le stesse: o la Torre di Donoratico con i versi sul…”Conte” (Ugolino della Gherardesca..), o uno scorcio del paese, visto dal mare o visto dalle colline, con i versi di “Traversando la Maremma Toscana” o il Borgo, con i versi di “. Martino”.
Al mio ritorno a scuola mi facevano parlare del Carducci e recitare le sue poesie e io mi sentivo molto importante perché avevo una casa sugli “irti colli” e frequentavo “le vie del Borgo”. In paese, che da casa nostra distava quattro chilometri, si andava naturalmente a piedi. All’andata ci impiegavamo un’ora ed al ritorno un’ora abbondante perché la scarpinata, tra i sassi e la polvere, dovevamo farla sotto il sole di mezzogiorno e cariche come ciuchi.
Nonostante tutto ciò (o proprio per tutto ciò) io in quella situazione non mi annoiavo affatto, anzi mi divertivo moltissimo ed avevo sempre mille cose da fare. La mattina leggevo o disegnavo e così nelle prime ore del pomeriggio; del riposino pomeridiano non C’era bisogno perché la sera andavamo a letto presto.
Avevo anche sempre un gran daffare con gli animali: i cani (tra questi ricordo con particolare affetto il bastardissimo Tabacchino) ed i gatti che mi adoravano e che, durante la mia permanenza, si installavano nel mio giardino e mangiavano come pascià.
La Pia mi diceva: “Lei li avvezza male! Altro che piattini di latte e teste di pesce! Quando sarete partiti come si farà a riavvezzarli a mangia’ i topi?”. Poi mi piacevano i vitellini Fiore e Farfalla, la vacca Bianchina, la capretta, i conigli, di cui mi divertivo ad imitare il verso con la bocca (e che poi mi dispiaceva di mangiare), i pulcini e la “lucia” (la tacchina).
Paperi e galline mi stavano antipatici e li mangiavo senza nessuna remora. Dei paperi avevo paura da quando mi avevano inspiegabilmente rincorsa (forse perché ero vestita di rosso? starazzando ad ali aperte fino a mordermi un polpaccio. Papà, che stava nei pressi col fucile, era stato costretto a sparare un colpo per aria per spaventarli e costringerli a mollare la presa. A me venne la febbre a 40°, dallo spavento e la sventagliata di pallini rimase nel muro, a memoria dell’episodio!
Delle galline, poi, avevo una pessima opinione. La sola volta che mi ero affezionata ad una gallina era poi finita in padella. La brutta opinione delle galline derivava da un episodio che aveva colpito la mia fantasia, pur essendo piccolissima, e che non ho più dimenticato. Un giorno passavamo in macchina sulla Via Tiberina, vicino Roma, quando papà investi ed ammazzò una gallina.
Si fermò e disse: “Le galline sono gli animali più stupidi del mondo. Quando vorrebbero attraversare una strada e sentono il rumore di una macchina che arriva si fermano, indecise, e fanno due passi avanti e uno indietro per un bel po’… Poi, quando finalmente si decidono ad attraversare… zac! La macchina è bell’arrivata! Proprio stupide le galline!”. Scese, raccattò la vittima della strada e la mise nel baule, destinandola ai fornelli. “Così impara” concluse. Il fatto ed il discorso mi impressionarono talmente che tuttora, quando vedo una persona indecisa se andare avanti o indietro, le dico: “Ma che fai, come le galline?”.
Nonostante questa premessa, le galline di Castagneto erano riuscite a riabilitarsi un po’ nella mia considerazione: esse “vedevano” il falco roteare sulle loro teste! Scappavano a rifugiarsi o sotto le cataste di legna o dentro le carraie, perché, di giorno, la porta del pollaio rimaneva chiusa. Come facessero a vedere per aria il loro nemico avendo gli occhi laterali, e non sopra la testa, non sono mai riuscita a capirlo.
Naturalmente la quotidiana familiarità con gli animali fu causa anche di alcune perplessità.
Come si sa, il rapporto che per primo balza evidente ed interessa i bambini è quello di madre e figlio. Gli stessi libri illustrati per i più piccini mostrano la gallina con il pulcino, la vacca con il vitellino, la pecora con l’agnello e così via. Ma dopo i cinque anni io avevo scoperto il ruolo congiunto di marito e padre. Perciò ci rimasi male quando, avendo chiamato il vitellino “figlio” del bue, uno dei ragazzi dei contadini scoppiò a ridere e mi disse: “Ma il bue ‘un è mica il su’ babbo, il su’ babbo è il toro!”. Il toro io l’avevo già sentito nominare ma non avevo la minima idea di che specie di animale fosse: sui miei libri non C’era e, come il cinghiale, al giardino zoologico non se ne vedeva nemmeno uno.
Alla mia inevitabile domanda (“ma il bue non è il marito della vacca?”) l’ineffabile mamma rispose: “Non sempre: dipende dalle razze”. Le cose si complicarono, alcuni anni più tardi, quando lessi, sopra una casa del piano, “stazione di monta taurina”. Come stazione mi parve un po’ troppo distante dalla linea ferroviaria! Ricordo con assoluta sicurezza di aver chiesto spiegazioni, ma non saprei proprio dire che cosa mi fu risposto!
Coi capponi – che conoscevo benissimo perché li mangiavo ogni anno a Natale – le cose andarono invece così. Avevo notato che c’era un gallo solo e tante galline e mi avevano spiegato che il gallo, che aveva un caratteraccio, voleva essere l’unico marito delle galline (“se ce n’è un altro si leticano!?). “E i capponi?” chiesi io. “I capponi?…” rispose mamma « i capponi ‘un si sposano!”.
Mi stette bene così. Ed, in fondo, era la verità…
…Arrivederci a domani con un nuovo episodio!