Le vostre storie,Racconti

La mia campagna – V episodio

Una villeggiatura d’altri tempi

5° episodio

Un altro piacevole passatempo erano le merende. Le merende della mia infanzia (e parlo della preistoria, quando il Signor Ferrero non aveva nemmeno inventato la Nutella) non erano le “merendine” di oggi. In città si mangiava pane e marmellata e pane e burro, con sale o con lo zucchero. Ma quasi sempre venivo sollecitata («Via… vieni E l’ora di far merenda!?. A Castagneto la merenda era tutta un’altra cosa… Si mangiava pane, prosciutto e fichi, oppure pane e “freghe”. Che cos’era pane e “freghe”? Ma era la cosa più deliziosa e più semplice del mondo! Si prendeva una bella fetta di pane casalingo, ci si “fregava” sopra, spiaccicandolo ben bene, un pomodoro maturo, eliminandone la buccia, se possibile. E poi un filo d’olio, un pizzico di sale e una spolveratina di regamo (origano).

Il regamo lo coglievamo noi: ce n’era soprattutto lungo i bordi della strada che portava alla vigna del Seri. Poi lo lasciavamo seccare al sole. Chi dimenticherà mai il suo profumo, così diverso da quello dell’origano dei barattoletti e delle bustine che si vendono in città! Pane e “freghe”, oltretutto, non era una merenda qualunque, era anche una merenda trasgressiva solo a nominarla… Infatti somigliava molto ad un’espressione a me, a quei tempi, tassativamente proibita. 

Che soddisfazione poter dire “freghe” davanti ai miei genitori!

Ma durò poco… Decisero di ribattezzare quella merenda “pane impomodorato”. Già detto così, sembrava non aver nemmeno più lo stesso sapore, ma tantêl… Nel mio ricordo resta sempre comunque pane e “freghe”!

Facevamo anche delle belle passeggiate, alla ricerca di qualcosa: ciclamini, pinoli, vecce (specie di funghi mangerecci), bacche di ginepro. Di ciclamini riempivamo, poi, grossi bicchieri o piccole brocche di coccio, perché, li, vasi da fiori non ne avevamo davvero.

Con i pinoli facevamo il croccante con lo zucchero, le vecce si cucinavano e con le bacche di ginepro mio padre, con l’alcool e una specie di primitivo alambicco, distillava una sorta di liquore da lui chiamato, senza pudore, gin… 

Oppure andavamo con i fiaschi alla “fonte della Mea”, non tanto per prendere l’acqua sorgiva quanto per fare la passeggiata, che era lunga, bella e si concludeva in un boschetto con radura, molto suggestivi. 

Se invece era piovuto, si andava a far chiocciole, di cui papà era assai ghiotto, lungo le siepi o sotto i sassi delle macie. A casa le mettevamo, poi, sul pavimento di mattoni della cucina, in un angolo; le si innaffiavano bene di farina perché potessero spurgare e poi si coprivano con un corbello rovesciato, sul quale veniva posto un ferro da stiro, di quelli pesantissimi d’una volta. Mi dicevano che, senza il peso, la loro forza era tale da spostare e sollevare il corbello per tentare di darsi alla fuga.

Ma quando la mia cuginetta ed io eravamo proprio piccole, prima della guerra, il nostro passatempo preferito era quello di giocare a nascondino con i bimbi dei contadini e con i bimbi dei nostri vicini Serni. La tana era posta al tronco del noce e noi ci “rimpiattavamo” dietro i pagliai, le siepi, gli argini. I ragazzi dei contadini spesso si nascondevano sopra gli alberi, arrampicandosi come scoiattoli. Quando toccava a me “accecarmi” mi dimenticavo poi di guardare per aria, così, non appena mi allontanavo un po’ e voltavo le spalle, loro balzavano giù come grilli e facevano “tana liberatutti!”.

Li invidiavo per questa loro abilità ed anche perché correvano scalzi mentre io non ne ero capace, non sopportando, sotto i piedi, i sassolini, gli stecchetti secchi e, soprattutto, i piccoli escrementi dei polli, sparsi ovunque e spesso nascosti tra l’erba. À volte mi indispettivo.

“Giochiamo?” chiedevo, e loro: “Ora ‘un si pole ruzza’ perché si deve governa’ i maiali” (o far l’erba ai ‘oniglioli o abbeverare le “bestie”). Allora li seguivo tra i campi raccogliendo con loro il finocchio selvatico per i conigli, o li accompagnavo alla pozza ad abbeverare i buoi o li aiutavo a portare le zucche ai maiali. 

In quest’ultima occasione non mancavo mai di spaccare una zucca o due, ne tiravo fuori i semi che, liberati dai filamenti, poi stendevo su un pezzo di carta ad asciugare al sole, sul tetto del castro. 

La massaia, nel fare il pane, li avrebbe infornati, garantendomi la mia scorta di “brustolini”. Questi me li sarei andata, poi, a sgranocchiare sul melo del giardino, che era l’unico albero, non infestato dalle formiche, sul quale riuscissi a salire con facilità. Lì rimanevo appollaiata a lungo, grazie ad un ramo compiacente a forma di sedile. Quel melo seguitai a frequentarlo anche da grande, cosicché mio padre l’aveva definito il mio “pensatoio”.

Verso sera spesso accompagnavo mia mamma e mia zia a comprare il latte a Grattamacco dove cera l’unica mucca della zona. La contadina ci riempiva la bottiglia con l’imbuto d’alluminio ed un grosso ramaiolo di metallo, attingendo il latte, sempre ricoperto da un velo di panna, da un enorme pentolone, intorno al quale ronzavano le mosche. Forse non saranno state assicurate le migliori condizioni igieniche, il latte era assai più grasso e pesante (e saporito!) di quello di città; ma nonostante che non ci fossero, per conservarlo, ne frigoriferi e nemmeno ghiacciaie, mai nessuno di noi, per causa sua, soffrì di mal di pancia!

E anche questa puntata è finita, arrivederci a domani! 

 

Anni Quaranta, sopra un carro i nella strada Il Poggio alla Querce
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Maura Pucci da Filicaja

Maura Pucci da Filicaja vive a Roma da quando era bambina, ma nasce a Firenze novantadue anni fa. Madre di cinque figli affettuosi e nonna di ben dieci splendidi nipoti, è una signora che nutre da sempre grandi interessi. Due sonno state le passioni costanti che l’hanno accompagnata nella vita: la musica e la lingua italiana. Da quest’ultima deriva il suo più alto piacere, quello della scrittura. Come ella sostiene, famiglia e passioni sono state il “motore attivo” della sua longevità…

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Patrizia Fondelli

Che bello, un ritorno al passato di cui ho tanta, troppa nostalgia. Mi sembra di sentire quei profumi e ricordo l’esperienza dei giochi.
Io sono più giovane della signora Pucci, ma noi, bimbi del dopoguerra, abbiamo conosciuto una realtà stupenda, forse la più bella, neppure lontanamente riproponibile. Fra le merende ricordo anche il pane bagnato con il vino e cosparso di zucchero. A me non piaceva, ma la mia nonna la preparava per una vecchia mendicante che, occasionalmente, suonava alla nostra porta.
Ho riportato questo ricordo nel mio secondo libro “IL COVID,LA GUERRA E LA CONSOLANTE NONNITUDINE”.
I miei libri sono un ibrido dove, a racconti di vita vissuta, spesso comici, alterno riflessioni conseguenti alla mia professione di psicologo clinico.
Grazie per aver evocato in me ricordi struggenti…

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