La mia campagna – VI episodio
Una villeggiatura d’altri tempi
6° episodio
Alla fine di settembre si avvicinava un grande evento: la vendemmia.
Papà ogni anno, in quell’occasione, mi regalava un temperino nuovo, affilatissimo, con mille raccomandazioni. Lui non veniva mai alla vendemmia, anzi, non andava da nessuna parte perché era claudicante per una ferita riportata nella grande guerra; però aveva modo di passare il tempo lo stesso, con la lettura, con le parole crociate o con la… caccia! Un’altra sua debolezza era infatti quella di ritenersi un cacciatore ed aveva sempre attrezzature di qualità e fucili di ottime marche.
A Castagneto, nella circostanza, indossava un gilet di fustagno (e se faceva freddo una giacca alla cacciatora, tutta piena di tasche), una cartuccera in vita ed il fucile a tracolla. Il guaio è che pretendeva di “andare a caccia” nel giardino di casa nostra! Si sedeva sulla poltrona pieghevole, all’ombra della palma, l’occhio vigile ed il fucile appoggiato sulle gambe, in posizione di preallarme, ed aspettava…
Aspettava, senza perdere di vista il melo, il pero, il mandorlo, eccetera… sperando che da un momento all’altro qualche fagiano si venisse a posare proprio li, magari sul nespolo o sul giuggiolo. Al massimo girava sull’aia, mirando ai ciliegi ed ai fichi, od arrivava fino alla “pozza”, all’incrocio tra la via che portava alla fossa e quella che portava a Lungagnano, puntando lo sguardo sui lecci, sui cerri, sulle querce.
Ogni tanto sparava e, quando era fortunato ed i gatti non erano arrivati prima di lui, tirava su da terra un passerotto o due o tre beccafichi. Li portava a casa tutto trionfante e li faceva cucinare arrosto in un padellino. Io ero l’unica della famiglia (sciagurata!) disposta a mangiarli insieme a lui. Per non sprecare niente mi aveva perfino insegnato a spaccare in due, con un coltellino seghettato, le piccole teste ed a prelevarne il minuscolo cervello con uno stuzzicadenti! Ma prima di rientrare a Roma non mancava mai di procurarsi, acquistandoli dai cacciatori di passaggio, due sontuosi fagiani che avrebbe poi regalati al suo Generale, dicendo che li aveva presi proprio lui, di persona…
Così solo le donne della famiglia partecipavano alla vendemmia: mamma, zia, mia cugina, ed io, naturalmente. Io tagliavo i grappoli più piccoli perché, con il mio temperino, non potevo combinare un gran che ed invidiavo i ragazzi dei contadini che erano dotati di grossi coltellacci. Nel posare i miei grappoli nei corbelli, disseminati lungo i filari, avevo la piacevole sensazione di essere utile alla causa familiare perché sapevo che il vino era un raccolto importante per noi ce n’era per il nostro consumo e per quello dei mezzadri e se ne vendeva anche parecchio, e bene. Era infatti un vino rosso, di ottima qualità, che avrebbe potuto anche essere scambiato per un Chianti.
Del resto papà diceva sempre: “La collina avrà i suoi guai, ma quanto al vino e all’olio bisogna proprio lasciarla stare!”.
Prima del termine delle vacanze mi attendevano altri avvenimenti. In primo luogo la “svina”.
Quando si apriva la prima botte con il vino nuovo era una gran festa. Per tradizione la famiglia colonica ci invitava tutti a pranzo. Ci si metteva a tavola all’una e sul far della sera eravamo ancora lì… I pranzi erano sempre gli stessi anche se noi, ogni anno, facevamo finta di stupirci: crostini di pane con rigagli di pollo, brodo di gallina con pasta fatta in casa, pollo e tacchino lessi con verdure varie, fresche e sott’olio, pollo e coniglio fritti con patate fritte. E quando si credeva di essere arrivati alla frutta… si ricominciava tutto da capo, con le tagliatelle al sugo e tutta la serie degli arrosti (maiale, piccioni, polli) e insalate e pomodori e poi frutta e biscotti fatti in casa. E vino nuovo a volontà!
Una volta, avrò avuto poco più di dieci anni, la contadina disse che ormai era l’ora che anche la padroncina assaggiasse il “vino novo”. Ne tracannai mezzo bicchiere, tutto d’un fiato e non mi parve neanche tanto forte: sembrava proprio un vinello! Nel contempo la stessa contadina aveva detto a mio padre: “Padrone, so che gli garbano tanto le chiocciole sgusciate con il sugo piccante e gli ho fatto l’improvvisata!” e gliene presentò un bel piatto.
Le offrì anche a me ed io le mangiai, con la massima tranquillità e devo dire che le trovai ottime. Fu la prima e l’ultima volta della mia vita perché, dopo, non ne ho più trovato il coraggio. Evidentemente quella volta fu merito (o colpa) del «vino novo”! Tuttora, quando sento parlare di un pranzo pantagruelico, il mio pensiero va ai pranzi della “svina”. Che avevano, tra l’altro, anche una particolarità: le donne (la massaia e le nuore), dopo aver tanto lavorato per cucinare, ci servivano a tavola e non si sedevano con noi, ma si andavano a sedere sul gradino del focolare, con il piatto in mano.
Mia mamma quell’atteggiamento non lo sopportava proprio e non lo condivideva, soprattutto per rispetto della vecchia massaia. “O Dusola” diceva “venite a sedervi qui, sennò prendo il piatto e vengo io ‘osti con voil”. Ma non c’era niente da fare. A tavola con i padroni si sedevano solo gli uomini ed i ragazzi.
… Arrivederci a domani con il prossimo episodio !