La mia campagna – VII episodio
Una villeggiatura d’altri tempi
7° episodio
Dopo la “svina” quasi sempre il tempo cambiava, cominciavano le piogge, anzi i temporali e si annunciava l’autunno.
I temporali, soprattutto di notte, facevano davvero paura. Il vento fischiava a più non posso e spostava le tegole: l’acqua s’infiltrava nelle camere da letto che erano sotto tetto ed era necessario sistemare varie catinelle nei punti strategici.
Ma l’ossessivo e fastidioso “toc, toc, toc” non era niente in confronto al frastuono prodotto dallo scrosciare violento della pioggia e dalle foglie della palma che sbattevano contro le imposte. In quei momenti il pensiero di tutti andava al cipresso dietro casa, e non solo per la cattiva fama che in genere hanno i cipressi come attira-fulmini.
Proprio quello, il nostro, aveva una forma molto dissimile da quella canonica (non era a punta) e nessuno ignorava che era stato ridotto così dai fulmini che, più di una volta, lo avevano colpito. Quando era ancora viva nonna Emma, lei prendeva un campanello benedetto e cominciava a passeggiare per casa (se era notte si alzava e scendeva al pianterreno) scampanellando e salmodiando: “Santa Barbara benedetta, liberaci dal tuono e dalla saetta!”
Negli anni della mia infanzia, l’espressione “la furia degli elementi” veniva da me subito ricollegata ai temporali castagnetani. Tuttavia, ben lungi dal fare le valigie e tornare in città, come si farebbe oggi, rimanevamo li imperterriti, mettevamo indumenti più pesanti, le calze e le scarpe chiuse.
Poi tornava il sole, faceva freddino ma ricominciavamo la solita vita. L’unica differenza la faceva il fango che riportavamo a casa in quantità, attaccato alla suola delle scarpe. Ma non c’erano problemi, tanto il pavimento era di mattoni al naturale!.
E cominciavano a cadere le prime olive.
Anch’io andavo con gli altri a raccattarle da terra, ad una ad una, con le dita a volte intirizzite. A Castagneto, almeno a quel tempo, si raccoglievano così: non le si abbacchiavano con i bastoni né si “strusciavano” i rami per provocarne la caduta sugli appositi teloni, come si faceva, ad esempio, in altre zone della Toscana, ma si aspettava, con santa pazienza, che cadessero tutte sul terreno. Quando cominciavano a cadere in gran quantità, allora, per la raccolta, venivano ingaggiate le cosiddette “opre”, pagate dal mezzadro. Per la gioventù locale andare ad “opra” era il modo migliore di racimolare qualche soldino da spendere durante le feste natalizie.
A questo punto le vacanze erano veramente terminate ed era prossima la riapertura delle scuole. Il mio dolore più grande era quello di lasciare i gatti ai quali mi affezionavo moltissimo. Li lasciavo ogni volta con la speranza di ritrovarli l’anno successivo; invece l’anno dopo erano sempre diversi. Chissà che fine facevano, povere bestie! Molto affettuosi erano gli addii con la famiglia colonica. Tutte le volte, al momento del commiato, i miei dicevano: “Suvvia, fatevi coraggio una buona volta! Prendete il treno e venite qualche giorno a Roma, tanto da noi c’è posto! Che vengano almeno i giovani!” Erano inviti sinceri: i miei pensavano che, quando si lavora duramente per tutto l’anno, qualche soddisfazione uno se la deve pur prendere. E quale migliore soddisfazione di vedere Roma almeno una volta nella vita? Ma loro li guardavano stupiti. “A Roma?!?” e facevano una smorfia come per dire “Macché, macché… ma che siamo pazzi?” quasi gli fosse stato proposto di partire per la luna. Infatti non è mai venuto nessuno.
Fine del settimo episodio …. A domani !