Questo immenso non sapere …
Inizio questo scritto con presunzione o incoscienza, non so dove mi porterà.
Eppure il titolo che Chandra ha dato al suo libro, mi attira è come una calamità che mi chiama, in “Questo immenso non sapere”.
Imparare a vivere la pratica della meraviglia, esercitarsi a non sapere e a meravigliarsi di tutto, è così che Chandra si presenta nella sua premessa.
È strano. Ma poi non più di tanto, ho timore a metterci parole su questo “esercitare”.
Le parole fissano, discutano, fermano momenti emozioni e vissuti, ma quando ci si inoltra nel “non sapere” è meglio guardare da lontano la parola. Qui il concetto del risaputo svanisce, per cui il concetto di un albero, di una strada, di una casa o del mare, è guardare con lo sguardo dell’innocenza, con lo sguardo del momento e non con ciò che sappiamo.
Chandra afferma nel suo “ghiotto” libro che esercitare la meraviglia cura un cuore malato, dalla sua sofferenza, dalla sua paura. Una cosa ve detta. Certo è pur vero che diventando così indifferenti alla “spettacolarizzazione” costante di tutto, alla mancanza di silenzio, all’attesa quieta, non possiamo inoltrarci e andare nella profondità di noi stessi.
«E in questa non esiste solo la nostra storia personale, e sentire che non c’è persona.
Assaporare la sofferenza senza cadere nella rete di raccontarsela ma lasciando che sia lei a raccontare e sentire che i suoi racconti servono a renderci più precisi nella compassione verso sé stessi consapevoli poi anche di splendere.
Accorgersi che anche la gioia c’è, è una gioia su misura che ci conosce bene».
È cosi che Chandra scrive! È così scontato? Quante volte abbiamo sentito dire o leggere ciò, ma forse siamo mancanti di esperienza.
Arriva a me un ricordo, di quando andavo in campagna da amici. Scendendo dalla macchina il silenzio mi dava il benvenuto, l’odore della terra bagnata se aveva piovuto, era gradevolissimo come l’odore delle vigne li vicino e poi…il buio serale. No non era buio! In questo c’era luce che mi sollevava e mi conduceva alla via.
Momenti preziosi là dove la mia appartenenza si confondeva con il tutto.
Amo i ritmi della natura, del resto ho trascorso parte della mia infanzia in campagna, nello stupore e nella meraviglia di tutto. Là c’erano i maiali, le galline e non passava giorno che non andassi ad incontraRli con la meraviglia di una piccola, bambina. E poi il cielo, le stelle le piccole lucertole che in primavera sbucavano dai muri, e il profumo dei fiori.
Mi sedevo su un muricciolo in attesa che il campanile della chiesa, iniziasse a suonare, mentre la compagnia non mi mancava, una rosa e una lucertolina. Erano gli anni del collegio, e lo stupore come la meraviglia erano in me; posso ben dire che tutto ciò mi sollevava dalla solitudine.
Per vari motivi non ho mai potuto trasferirmi in campagna, là dove tutto resta com’è, ogni fruscio, ogni gorgoglio, ogni suono è in sé, nel suo microcosmo ma anche in noi, punti di riferimento che ci richiamano all’esser parte di un tutto.
Già sappiamo tutto, conosciamo tutto…ma in realtà “questo immenso non sapere” ci appartiene, sempre.
“Nella gentilezza dei fiori mi perdo
come in un quadro di Van Gogh
nei prati ricoperti di miracoli
dialogo con Dio.
Il silenzio coinvolge anche le parole, e con l’infinito
negli occhi bevo ogni colore.
Sono albero, sono cielo
Sono luce che parla al tempo
E grano che riposa”
Una poesia di Mirian…