Angeli con gli occhi tristi
Erano giorni ormai che a scuola ci si preparava per il Natale, mentre a casa mamma non faceva che ripetere che quell’anno Natale sarebbe stato un giorno come gli altri, cosi per quell’anno avrei dovuto fare il bambino con due facce.
Ora non so, ma a quel tempo per Natale alle elementari si usava fare una gran recita; io venni scelto per una poesia che avrei recitato a memoria, forse perché già parlavo un Italiano poco sporcato dal dialetto. Comunque anche se in fondo alla mia gola c’era un sasso che faticava a scendere mi mostrai felice di recitare quella poesia.
Il giorno 22 di Dicembre, dopo aver provato per l’ennesima volta quella recita dove io chiudevo con la mia poesia, ci fu detto dalle maestre: “Domani fate venire i vostri genitori ad assistere alla recita”. Io a quel punto non sapevo cosa fare, mamma di certo non avrebbe potuto con i suoi impegni. La sera a cena tentai di dire qualcosa a mamma ma lei era presa con i problemi per una nostra vacca che non stava bene, quindi non dissi niente.
Il mattino del 23 andai a scuola per mano con Dalila come se niente fosse; pantalone bucato alle ginocchia e sporco di terra, scarpe leggermente rotte e grembiule con qualche macchia d’inchiostro. Arrivai a scuola e subito mi accorsi che qualcosa non andava nel mio abbigliamento; le maestre mi rimproverarono: “Ma la tua mamma non sapeva che oggi c’era la recita? Ti ha lasciato venire così?”
A quel punto Dalila prese per mano una maestra e quasi come a ruoli invertiti, la portò da parte e le parlò (tanto anche se non parlava ormai la capivano tutti); fu così che le maestre ebbero uno sguardo più benevolo nei miei confronti. Una spazzolata al pantalone, le scarpe inumidite per non far notare i graffi, il grembiule prestato a malincuore dal mio vicino di banco, e la recita ebbe inizio.
Io certo me ne rendo conto solo ora, ma per me fu una cosa normale recitare quella poesia a fine rappresentazione ma poi, appena finito di recitare a squarciagola e senza la benchè minima vergogna, partì un applauso: forte, intenso, spontaneo. Io cominciai a guardare quella piccola folla, cercai tra i tanti uno sguardo amico, ma niente solo Dalila, così quella mia pietra nella gola scese giù di colpo e cominciai a piangere, mah!!!
Forse era solitudine tra tutta quella gente, o forse pensai che mamma sarebbe stata felice di vedermi lì e il mio papà, così lontano, cosa avrebbe pensato di me? Non riuscivo a smettere di piangere; a sette anni già avevo forgiato il mio corpo ma ero pur sempre un bambino; le maestre cercarono un mio familiare poi, un p0’ meravigliate, mi fecero qualche complimento, un biscottino, e mi misero mano a mano con Dalila, e tutti a casa: vacanze di Natale.
Arrivati a casa, la situazione si era normalizzata; mamma si accorse subito che avevo pianto tantissimo, pensò subito che io e Dalila avessimo litigato con gli altri bambini ma riuscii a tranquillizzarla. Passò qualche minuto e si presentò da noi Afonso, il mio vicino di casa, con la sua mamma che lo teneva per mano: “Lucia, ho fatto le zeppole e te ne ho portate un po’; ho pensato che quest’anno non ne avresti fatte visto che non c’è tuo marito, poi volevo fare i complimenti a te per tuo figlio, è stato bravissimo ha fatto emozionare tutti, anche se alla fine si è messo a piangere tanto, ma tu dov’eri? In fondo? Non ti ho vista”, alle parole di quella donna mamma capì tutto. “Grazie per le zeppole ne farò un po’ stasera, spero che vengano buone come le tue; ti farò assaggiare anche le mie, a scuola non sapevo e poi non sarei potuta venire aspettavo il veterinario per la nostra vacca malata”, e così tutto fu chiarito senza che io parlassi.
Andato via Alfonso con la sua mamma, partì una carezza da quella mezza mano della mia mamma: “Avevi capito che non sarei potuta venire vero? Maledetta povertà! Un giorno ci potremo permettere di festeggiare e ridere come tutti, per ora ci tocca piangere da soli, figlio mio”, queste le sue parole. Ci guardammo negli occhi e vidi in noi, angeli dagli occhi tristi, quelli che nei presepi non ci soffermiamo mai a guardare.
Quella sera mettemmo a posto gli animali, poi la mamma mise un grembiule a Dalila: “Tu sei una femminuccia, questa sera faremo le zeppole”, disse verso la bambina che non potè che acconsentire.
Vennero buonissime; ma forse era la novità, oppure il fatto che nella foga avevamo dimenticato di pranzare: “Portane un po’ al tuo amico e non ti fermare a giocare, è tardi e dobbiamo andare a letto. Domani sarà una giornata dura , è la vigilia di Natale e dovremo mietere tanta erba, per noi non sarà Natale ma non voglio andare in giro anche quel giorno”, le parole di mamma.
Il giorno dopo ci fu una ghiacciata tremenda, partimmo con la nostra carretta un pò più tardi ma era ancora freddissimo; io, Dalila e zio a piedi, mamma col carro. Ricordo che l’erba era così fredda che invece di tagliarsi, quasi si spezzava; il lavoro fu tanto ma per fortuna dopo tanto freddo il sole ci fece buona compagnia, fino a pomeriggio inoltrato.
La vigilia di Natale da noi non si pranza, solo una grande cena. Da noi non si usava pregare a tavola, nemmeno la vigilia di Natale. Anche se ora penso che in quella occasione si poteva fare una eccezione, la nonna aveva comprato giorni prima del baccalà che si usava friggere, tagliatelle fatte in casa e le zeppole; mancava solo papà. Così ci guardammo negli occhi come… angeli dagli occhi tristi!
Tratto da “Dalila, la bambina che non parlava mai” di Domenico Truocchio