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La mia paura più grande

Cosa vuol dire essere coraggioso? La definizione che dà il dizionario Treccani del termine “coraggio” è: «Forza d’animo nel sopportare con serenità e rassegnazione dolori fisici o morali, nell’affrontare con decisione un pericolo, nel dire o fare cosa che comporti rischio o sacrificio».

Quindi, per estensione, potremmo dedurre che un personaggio coraggioso è quello che esprime le proprie idee, sa affrontare situazioni pericolose, è in grado di sopportare dolore e sacrifici.

Ma coraggiosi si nasce o si diventa? E soprattutto, cosa ci spinge a comportarci coraggiosamente?

Io, ad esempio, ho scoperto relativamente presto a quale categoria appartenevo. È  accaduto quando avevo quindici anni . 

Quell’estate avevo convinto i miei familiari a iscrivermi ad un corso estivo di sci alpinismo sui ghiacciai dello Stelvio. Due settimana di scuola di sci per migliorare il mio livello, due settimane per stare con le mie amiche, due settimane lontana dai miei genitori ! Insomma … una vera pacchia! 

L’ albergo era molto bello, c’era pure la discoteca (!): dormivo in stanza con la mia amica di Firenze, Francesca, che si allenava durante l’nverno con me all’Abetone. Già durante il viaggio in pullman avevamo avuto modo di estendere il giro di conoscenze. In effetti, quell’anno alla scuola del Pirovano eravamo davvero un discreto gruppo di ragazzi e di ragazze. 

Tutti ben motivati, al mattino presto dopo aver fatto colazione, prendevamo gli impianti per salire al ghiacciaio e sciavamo fino all’ora di pranzo. Al pomeriggio facevamo palestra oppure ci allenavamo di nuovo all’aria aperta, a volte facevamo delle escursioni a piedi, alle volte pure a cavallo.

Anche se l’attività fisica di certo non mancava, poiché eravamo tutti carichi di grinta e di un sano spirito garoso da veri atleti, non appena si concludevamo gli allenamenti anziché andare a riposare, ci sfidavamo in partite improvvisate, rigorosamente “maschi contro femmine”, di Ping pong, oppure di freccette, di calcio balilla, pallavolo in notturna,  gare di tuffi in piscina e che più ne ha, più ne metta. 

Avevamo pure provveduto a redigere una sorta di tabellone per segnare i risultati, scrivendoli con un pennarello sul lato bianco di un poster che immortalava Gustav Thoeni in una delle sue memorabili imprese in slalom e che ormai un pò sbiadito dal tempo se ne stava appeso alla parete della stanza giochi, giù nella taverna dell’albergo. 

E se al principio il team delle ragazze era stato messo un po’ in difficoltà, alla fine della seconda settimana avevamo quasi recuperato il disavanzo. Da sommare al punteggio ottenuto mancava la gara di fine corso che era prevista nella mattinata dell’ultimo giorno prima della partenza. E  su quella non nutrivamo certo grandi speranze. I maschi erano davvero più forti in tutte le specialità. 

Persino gli allenatori e tutto lo staff dell’albergo avevano preso a cuore le nostre sfide e ci seguivano, avendo preso a tifare chi per gli uni e chi per gli altri. 

Fu così che all’allenatore venne in mente l’idea di diversificare l’ultimo giorno di allenamenti pomeridiani proponendoci anziché la solita routine di esercizi, un pomeriggio di sfide a squadre in palestra.  

“Buon per noi” pensammo. In effetti, questa poteva essere una buona occasione da sfruttare per accumulare punti a discapito dei ragazzi, insomma, ce la potevamo ancora giocare, no? Mai darsi per Vinte! 

Già mi immaginavo di portare in trionfo la mia squadra capitanando una staffetta, oppure vincendo una gara di scatti di corsa! Ero forte negli scatti anche se ero decisamente piccolina di statura! 

Alle due eravamo già tutti pronti e scendemmo in palestra. 

Il nostro istruttore ci aspettava, in piedi davanti alla parete di fondo che, a prima vista mi pareva avesse delle strane pietre incollate sopra in modo sparso; arrivavano alla rinfusa fino in cima, praticamente al soffitto. 

“Allora, oggi cominciamo da questa!”. 

“Chissà che diavolo ci facciamo con questa parete” pensai. 

Del resto, chi l’aveva mai vista una “parete per le arrampicate” prima di allora!

Mentre l’ istruttrice ci spiegava in cosa consisteva quella strana COSA e come avremmo potuto affrontarla (vale a  dire scalarla, protetti dal rischio di caduta nel vuoto grazie all’uso di alcune imbracatura speciali azionate con delle corde) ecco che *Improvvisamente* tutta la mia allegria svanì per fare spazio alla paura e il cuore cominciò a sobbalzarmi sempre più forte nel petto. 

Devo ammettere che da lontano sembrava tranquilla per cui in principio cercai di contenere quella che di primo acchito mi era parsa semplicemente una torta scarica di  “ansia da prestazione”; ma quando mi avvicinai ancora un altro po’… presi atto di quello che significava essere terrorizzati da qualcosa!  

Avevo scoperto quale fosse la mia paura più grande: “cadere nel vuoto”!

Non so di preciso quanti metri fosse alta, quella maledetta parete; sicuramente erano pochi, so solo che a me girava la testa anche soltanto a guardarla. 

Capii subito che per me non sarebbe stato facile affrontarla e mi prese un tremito incontrollato già mentre guardavo i miei amici che si preparavano per la prova indossando l’imbracatura. 

“Se non vuoi arrampicarti nessuno ti costringe! Hai capito?” Mi ribadiva con  un certo pressing l’allenatore che nel frattempo doveva essersi  evidentemente accorto del mio disagio. Il problema era che io non volevo tirarmi indietro, e non solo per il fatto che la mia squadra avrebbe perso punti a causa mia, ma perché non volevo rinchiudermi in me stessa come fanno i ricci, e stare lì a guardare. 

Volevo reagire. Non potevo farmi prendere in giro da tutti, e magai passare per la fifona di turno.

Quindi mi feci forza e addirittura feci un passo avanti per farmi indossare l’imbracatura. Poi attesi come in una sorta di trance emotivo che il ragazzino che aveva appena scalato la parete, scendesse. Stava per toccare a me…

Una maestra dello staff mi agganciò a lei con un moschettone e io iniziai a salire. 

All’inizio non fu così terribile ma più andavo su, più gli appigli mi parevano piccoli e prese a girarmi la testa. 

Dovetti fermarmi perché mi tremavano le gambe e, errore tra gli errori, guardai giù: la testa mi girò così forte che per un attimo persi stabilità, il cuore mi batteva a più non posso. 

“Non guardare giù!” mi urlava la mia amica per tranquillizzarmi. Ormai avevo già ceduto anche alle lacrime, che mi rigavano spudoratamente le guance, ma, a parte lo sfogo incontrollabile è tutto femminile, non volevo arrendermi. 

Presi in qualche modo coraggio e provai a salire ancora un po’, concentrandomi sulle mie mani e non su quanto fossi in alto. 

Niente da fare, anzi fu peggio. 

Iniziai pure a respirare male, un particolare questo non del tutto irrilevante poiché già a quel tempo io soffrivo di asma bronchiale e non avevo certo il pouff inalatorio di cortisone in tasca in quel momento. La mancanza di respiro sommata a quella sensazione ingovernabile di gambe tremanti, braccia molli e ai giramenti di testa, mi fecero rifermare e scoppiare a piangere di nuovo.

Passai qualche istante a sfogarmi. Dopodiché, sentendomi un poco più sollevata provai di nuovo a salire, perlomeno un poco di più ma, quando poggiai il piede sull’altra pietra, la suola di gomma mi fece scivolare  facendomi rimanere appesa solo per un braccio. A quel punto la fase lacrime era decisamente superata.  Troppo poco …. Adesso gridavo dal  terrore!

“Barbara! Non ti devi preoccupare, ok?” Mi urlava qualcuno da basso. Tentai di fare un respiro profondo anche solo per rispondere perché a me sembrava che non uscisse alcun verbo dalla bocca, anche se era spalancata!

Cercai con tutte le mie forze di riagguantare l’appiglio, ma le mani mi sudavano. Maledette  pietre colorate!

“Ascoltami! Lascia le mani dalla parete!” 

Non gli detti retta. O meglio, non lo feci subito; prima cercai di concentrarmi sul mio respiro e sul battito del cuore. Intendevo calmarmi e lo feci.

Mi calmai, e con tutto il coraggio che trovai dentro, a quel punto staccai le mani dalla parete rimanendo appesa alla corda, che ciondolava sospesa nel vuoto. 

“Vedi? Non puoi cadere! Non sei in pericolo! Continua a salire!” 

Ascoltai il consiglio. Deglutii quel poco di saliva che mi restava in bocca, mi asciugai le lacrime e mi riavvicinai alla parete. 

Nonostante avessi la mente offuscata e le mani ancora più sudate, agguantai una di quelle sorte di maniglie, e poi ne presi un’altra. Fatto questo, appoggiai entrambi i piedi alla meglio su altri due appigli e ricominciai a salire. 

Mi arrampicai per quelli che a me parvero dei minuti interminabili finché non arrivai alla penultima pietra. 

Tentennai un po’, ero davvero in alto, ma mi mancava solo una piccola spinta per arrivare in cima. 

Sotto di me tutti gridavano parole di incoraggiamento che io ovviamente non sentii, tanto ero concentrata su quel momento. Mi detti una spinta con le gambe e afferrai l’ultima maniglia.  

Wow!

Ce l’avevo fatta! Ero riuscita ad arrivare in cima a quella benedetta parete.  Avevo superato la mia paura di cadere! Avevo vinto! 

Assaporai ancora per pochi secondi il sapore della vittoria, alla conquista del mio piccolo Everest. 

Poi lasciai la presa e l’istruttore cominciò a calarmi per farmi scendere. 

Quando toccai terra, tutti si congratularono con me e fui avvolta da decine di abbracci. 

La sfida dell’arrampicata la vincemmo noi ragazze di un punto esatto. Il mio contributo si rivelò essenziale! Per il resto però, devo ammettere che fu una sonora sconfitta poiché perdemmo di brutto la gara di sci del giorno dopo, praticamente in tutte e tre le discipline.  

Anche se non vinsi alcuna coppa, ma soltanto una medaglietta di bronzo,  rimasi soddisfattissima dei miei risultati. Avevo imparato davvero molto da quella esperienza, una lezione di vita che mi sarebbe servita per il resto dei miei giorni. 

Avevo capito sulla mia pelle che Paura e Coraggio sono le due facce di una stessa medaglia e che il coraggio non è altro che l’effetto di una grandissima paura. Avevo capito  anche che, a differenza di quanto avevo creduto fino ad allora, io non ero nata coraggiosa, ma al bisogno lo ero diventata!

Non ho mai più praticato un’arrampicata, ne’ tanto meno ho mai scalato una parete di roccia vera. Ma grazie a quel momento in cui seppi  trovare la forza di reagire e gestire la mia paura trasformandola in coraggio, ogni giorno posso svolgere la mia professione di architetto e di direttore dei lavori nei cantieri edili, salendo tranquillamente su scale e ponteggi, sapendo di starmene il più delle volte sospesa nel vuoto a decine di metri da terra senza più provare paura. 

(brano musicale  suggerito con la lettura:  Ain’t no Mountain is high enough)

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Barbara Chiarini

Barbara Chiarini nasce a Firenze nel 1967. Laureata in Architettura con indirizzo storico-restauro e conservazione dei Beni Architettonici, si ritiene un architetto per professione, una scrittrice per passione, ed una fiorentina D.O.C. Autrice del libro “Per le Antiche Strade di Firenze”, “Una finestra affacciata dull’Arno” e “Su e Giù per le strade di Firenze”, ella è anche la fondatrice nonche’ uno degli Amministratori di questo Blog.

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