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Quell’estate indimenticabile

Era il giugno del 1964.

Mia madre ed io partivamo per Assisi, come ogni estate, e così come ogni Natale e Pasqua.

Passavamo più tempo possibile a casa dei miei nonni a Santa Maria degli Angeli, accanto alla Basilica dove c’è la Porziuncola.

Da quando abitavamo a Napoli mia madre aveva intrapreso, infatti, una crociata – che si sarebbe rivelata assolutamente inutile – per limitare al massimo possibile una mia contaminazione con un popolo, quello napoletano, che ai suoi occhi di donna cresciuta ad Assisi appariva greve, sconcio ed inaffidabile.

 Io ero felicissimo ogni volta che partivo per Assisi non perché condividessi le bizze di mia madre – conoscevo del popolo napoletano solo gli esemplari “migliori”: i ragazzi borghesi del Vomero – ma perché Assisi per me significava Libertà.

Sarei andato in bicicletta tutto il giorno. Da solo ma libero.

 Pedalavo all’aperto senza regole se non quella di passare ogni tanto per casa di mia nonna o di avvertire prima di andare da mia zia, a Bastia Umbra.  

 Ad attirarmi a Bastia c’era il fatto che dovevo fare cinque chilometri in bicicletta e questo mi sembrava avventuroso e sfidante ma soprattutto perché mia zia, Maria Fabiani, aveva un atelier di moda, famoso fino a Roma, nel quale confezionava abiti da sposa e vestiti da donna di grandissima classe.

L’atelier aveva 15 lavoranti che, quando stavo lì, mi coccolavano oltre misura dividendo la loro colazione con me e parlandomi di stoffe, trine, merletti oppure del punto croce o di come si costruiscono i modelli su carta e poi sulla base di quei modelli la Sarta dava “il primo taglio”.

Mi capitava di vivere con loro l’emozione del rito della “messa in prova” dell’abito da sposa che veniva fissato dalle aiutanti di mia zia alacremente con decine di spille.

Quel mondo femminile incantevole e retrò mi è rimasto dentro e mi spinge ancora oggi a fermarmi davanti alle vetrine degli abiti da donna con occhi sognanti e a verificare la mia acquisita competenza sartoriale individuando al primo sguardo accoppiamenti e le giuste taglie per coloro che mi accompagnano. Naturalmente donne.

Anche il viaggio da Napoli per Assisi era per me una fantastica avventura. Durava oltre sei ore e si doveva cambiare treno a Roma, a Orte e a Foligno.

 L’ultima tratta era la mia preferita perché si procedeva, non essendoci l’alta tensione, a vapore oppure a diesel, con quella che veniva chiamata “littorina”: un’unica carrozza con il guidatore avanti.

 Era dotata di ampi vetri alla giusta altezza del mio naso e dei miei occhi fin da quando ero piccolo: così, con il naso schiacciato sul vetro, aspettavo che comparissero di sera, in lontananza e poi sempre più vicine, le luci di Assisi sdraiata sul Monte Subasio con la Basilica di San Francesco nella sua estremità più lontana che chiudeva una visione che mi scatenava ogni volta il cuore a mille.

Vivevo ogni viaggio come un’emozione irrefrenabile e nuova.

Anche quella sera andò tutto come l’aspettavo. Scendemmo dal treno e cominciammo a percorrere i duecento metri di strada per andare a casa di mia nonna. Anche mia madre era emozionata: lo capivo da come dondolava le nostre mani allacciate e dalle sue risate fragorose – Pierè ci siamo!

Superammo il passaggio a livello, altro mio luogo di memoria: là, più volte al giorno, mi accompagnava mio nonno Adamo, prendendomi per mano, fin da quando ero piccolissimo, ad aspettare il passaggio dei treni tirati da locomotive sbuffanti. Ed io, instancabilmente saltavo dalla gioia e agitavo la manina per salutare… il treno.

Ma quella sera accadde una cosa imprevista.

 Improvvisamente si stagliò davanti a noi la figura di mio nonno appoggiato ad una sbarra con un’espressione sul viso che spense in un attimo ogni colore dentro e intorno a me.

 Il mio cuore chiese di fermarsi e la mia mente staccò ogni collegamento con il corpo.

 Nonno Adamo si avvicinò a mia madre, le sussurrò una frase che non riuscii a decifrare intontito come ero in quel momento. Vidi solo che mia madre, ascoltandolo, sussultò, alzò la testa all’indietro e si coprì la bocca con la mano per non strillare.

Filammo rapidamente a casa. Mia nonna non c’era. La casa era vuota e fredda.

Mi giravo attorno incredulo e cominciai ad avvertire le prime lacrime che mi rigavano il viso. Non riuscivo a proferire parole e interrogavo mia madre con gli occhi.

Mia madre mi spiegò che mio zio Ezechiele, detto Edi, il suo fratello adorato di due anni più piccolo di lei, era tornato la sera prima da Senigallia, dove aveva accompagnato la sua famiglia, ma poi di notte si era sentito male, tanto male che era stato ricoverato in ospedale. E mia nonna avrebbe passato la notte con lui.

Edi era il giovane adulto che mi adorava da quando ero appena nato. Ma soprattutto era colui che, appena riusciva a superare il controllo di mia madre, mi faceva salire in motocicletta, mi diceva “reggiti forte” e mi faceva fare il giro breve ed il più entusiasmante della mia vita. Con mia madre che accortasi del misfatto gli correva dietro urlando: “dai Edi piantala che è pericoloso.”

Zio Edi morì il pomeriggio del giorno dopo.

Mia madre era tornata con l’orologio di mio zio stretto in una mano, con la faccia sconvolta, gli occhi rossi, gonfi ed ormai privi di lacrime. Mi bisbigliò: l’ho abbracciato mentre moriva. Poi tacque per giorni.

Io non piansi, non dissi nulla. Avevo la testa che mi ronzava e da allora guardai “da fuori” tutto quello che successe in quei giorni.

La sera tardi arrivò una macchina del titolare dell’impresa dove lavorava mio zio che riportava ad Assisi la moglie e le due figlie.

Laura, zia Lalla, proseguì per l’ospedale all’insaputa di tutto, dove appena arrivata un’infermiera nell’androne le disse semplicemente: È morto.

Io sedevo nella grande cucina di mia nonna tra molta gente sconosciuta quando arrivarono le figlie di Edi, le mie cuginette, Patrizia di sei anni e Dina di quattro e qualcosa.Corsero da me, le strinsi e le tenni abbracciate non so per quanto tempo. Mi sentii utile.

Poi ci fu tutto quello che succede in queste occasioni e che io conobbi per la prima volta.

Mio Zio Ezechiele, zio Edi, quando morì aveva trentasei anni. La diagnosi: epatite virale fulminante.

Quello fu l’ultimo viaggio in treno che ho fatto con mia madre.

Non sono più tornato ad Assisi d’estate.

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Pierluigi Del Pinto
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