Il cielo è ancora in quella stanza
« … L’artista vero è Picasso che ha cercato per tutta la vita, sbagliando magari, ma senza fermarsi mai!» ammetteva Gino Paoli nel corso di un’ intervista rilasciata ai tabloid qualche giorno fa, esprimendo la propria opinione circa il significato di artista e parlando dei sessant’anni da poco compiuti dalla sua Il cielo in una Stanza.
Scritta da giovanissimo, nel 1960, quando il cantautore non era ancora iscritto alla SIAE, fu la prima canzone d’autore ad aver raggiunto il grande pubblico, facendo da apripista alla stagione degli anni Sessanta.
Il cielo in una Stanza fu prima in classifica sia nell’interpretazione di Paoli sia in quella di Mina (per ben 15 settimane!). Del resto Mina, quell’anno, avrebbe avuto la sua consacrazione con otto singoli nei primi venti, confermando il suo successo personale dopo essere divenuta una cantante famosa ai più per la sua indimenticabile Tintarella di Luna.
Se la versione di Paoli fu un classico dell’intimismo un poco svogliato e cinico, di uno stile che contravviene alle convenzioni del bel canto, quella della Tigre di Cremona fu un capolavoro d’intensità interpretativa, uno tra i momenti più alti della canzone italiana di tutti i tempi. Le parole vengono scandite per il loro valore semantico, pronunciate con forza, quasi la cantante non se ne volesse staccare.
Se Paoli, l’impegnato, espresse le cose nude e crude, Mina la romantica, le cantò, o forse sarebbe più adeguato dire le recitò, con passione.
Nei crediti delle varie versioni del disco figurano Mogol, come autore del testo e Toang, in qualità di compositore della musica. Solo successivamente sarà depositata con la firma corretta del solo Paoli.
Il brano, rifiutato da interpreti come Julia de Palma e Miranda Martino, fu proposto a Mina dal paroliere Mogol. E Mina decise di registrarla solo dopo averla sentita eseguita al pianoforte dallo stesso Paoli.
Come è stato più volte raccontato dallo stesso cantautore, il testo descrive l’incontro con una prostituta avvenuto in un bordello di Genova, riconoscibile dal soffitto viola.
Ma, nonostante la scabrosità dell’argomento trattato, Il cielo in una Stanza è considerata una delle più rilevanti espressioni della canzone d’autore italiana, un capolavoro.
L’immagine poetica, che evoca l’atto d’amore consumato nella stanza col soffitto viola, trasfigura circostanze e ambienti. La raffinata melodia, inizialmente lenta e confidenziale, conduce gradatamente verso spazi infiniti e trasognati raggiungendo il massimo dell’intensità musicale e poetica, per poi tornare nel finale all’intimità iniziale.
«L’estasi mi portò a trasformare il soffitto della camera in un cielo stellato aggiungendoci in sottofondo il ricordo dell’armonica che avevo suonato qualche tempo prima al compleanno di mio nonno», con queste parole Gino Paoli descriverà anche in seguito come trovò la sua ispirazione.
Da allora, delle storie di Paoli, delle sue passioni, dei suoi tanti amori, saranno piene le cronache e molte saranno ancora le canzoni amate per sempre dal suo pubblico: a cominciare da Senza fine, La gatta, Sapore di sale, Sassi, Come si fa, Che cosa c’è, Una lunga storia d’amore, fino a Il Mio Mondo, scritta a quattro mani con Umberto Bindi.
Probabilmente il segreto di tanti successi, è rimasto un mistero per tutti noi che amiamo ancora le sue canzoni, ma per il cantautore genevose non si tratta di magia.
Più semplicemente: «Il bello è che le canzoni, una volta pubblicate, hanno una vita loro e il successo è un incidente. Sempre».