L’urlo del grande guerriero Sioux
Cavallo Pazzo, lo spirito dei Sioux
«Hoke hey– urlò Cavallo Pazzo – ecco un buon giorno per morire».
Ma quel giorno, invece, non morì. Eppure era alla testa dei Lakota Sioux e dei Cheyenne e si lanciò contro il Settimo Cavalleggeri. Bellissimo da descrivere nei suoi tratti di guerriero: su una guancia aveva il segno della saetta, in quanto simbolo di invulnerabilità. Anche il suo cavallo era in veste guerriera e dietro l’orecchio aveva una pietra nera. Altro simbolo magico.
«Non morirai mai per mano dell’uomo bianco», gli aveva promesso lo stregone. E così fu: nella valle di Little Bighorn, le pallottole lo sfiorarono, senza colpirlo.
Sarebbe morto il 5 settembre 1877 a Fort Robinson, Nebraska: a tradirlo, uno dei suoi amici, Piccolo Grande Uomo.
Ma un anno prima, quel famoso 25 giugno 1876 fu un giorno memorabile: sancì la più grande vittoria dei Nativi Americani sugli invasori bianchi, coloro che li avevano già privati dei territori di caccia e avevano avviato la decimazione sistematica di milioni di bisonti. E si sa, senza i bisonti delle grandi pianure, la sopravvivenza non sarebbe stata comunque cosa facile.
Nuvola Rossa e Cavallo Pazzo
Resta comunque nella storia che, insieme con Toro Seduto, Cavallo Pazzo fu alla guida degli oltre mille guerrieri che ebbero la meglio sui cavalleggeri dell’esercito guidato da George Custer. Il sapore del successo fu soltanto lievemente palpabile, perché i federali, immediatamente ripresisi dal colpo, ottennero molte e nuove vittorie in quello stesso anno. E così Cavallo Pazzo il 6 maggio 1877, dopo aver comandato novecento Oglala ormai in fuga e stremati dalla fame, si dovette consegnare al comandante di Fort Robinson, il tenente Philo Clark: moriva all’alba di pochi mesi dopo, a trentasette anni di età, dopo essere stato colpito da una baionetta.
Da quel momento, la figura leggendaria di Cavallo Pazzo entra nel mito, in America come nel resto del mondo.
In verità, Cavallo Pazzo non era neppure il suo nome; alla nascita fu chiamato Fra gli Alberi. Cavallo Pazzo era il nome del padre, il quale glielo trasferì dopo il rito della Hanbleceya, una preghiera che conduceva a vivere un’esperienza spirituale, ma anche fisicamente dolorosa.
Cavallo Pazzo non accettò mai la pace di Laramie e continuò la sua lotta. Nel 1866, due anni prima del trattato che fu poi firmato da Nuvola Rossa, in qualità di guerriero inarrestabile quale era, aveva massacrato sino all’ultimo uomo del capitano Fetterman. Poi, sempre con i Cheyenne e con Toro Seduto (il quale però non aveva preso parte alla battaglia), aveva massacrato il battaglione di George Armstrong Custer: il generale, 9 ufficiali, 280 cavalleggeri, tutti uccisi a Little Bighorn. Si salvò solo John Martin da Sala Consilina, il trombettiere.
Oggi, 143 anni dopo la battaglia di Little Bighorn e 150 anni dopo il trattato di Laramie che avrebbe dovuto scongiurarla e invece fornì al governo federale il pretesto per la repressione, l’urlo del grande guerriero risuona ancora nell’immaginario collettivo.
Oggi ancora, i turisti si affollano ai piedi del Thunderhead Mountain: perché dall’alto di lassù li guarda una testa gigantesca ricavata nel granito, dieci volte più grande delle quattro scolpite sulla parete del vicino e celeberrimo Mount Rushmore.
Il Crazy Horse Memorial, monumento a Cavallo Pazzo nel South Dakota.
Una volta terminata, la statua sarà la più grande del mondo: alta 172 metri e larga 195. Ci lavorano John Ziolkowski, tre fratelli e una dozzina di nipoti.
«That is a work of love», dice John: l’opera d’amore fu addirittura iniziata dal padre di John, Korczak. Fu lui a volerla e a cominciarla nel 1948.
La grande statua è stata fatta senza mai richiedere alcun aiuto da parte del governo federale, di quel governo cioè che soltanto mezzo secolo prima, aveva sterminato tutte le tribù delle grandi pianure.
Sono passati già 71 anni: il volto è fatto. I lunghi capelli sono appena abbozzati. Il braccio teso è ancora prigioniero nella roccia. E così pure il busto del cavallo…. ma l’impressione e quella che Fra gli alberi si stia liberando dalla roccia che lo imprigiona per tornare a vivere: più grande, più forte, più vigoroso e coraggioso di prima.
Chiunque lo guardi è certo di vedere in quei tratti scolpiti il suo volto, e forse, più profondamente la sua anima: una sensazione di fierezza e dignità che riesce a permeare anche gli animi dei codardi.
Eppure di Cavallo Pazzo, o meglio, di Tasunke Witco, come era il suo nome in lingua originale, non ci sono foto sicure. Lui, non le aveva mai volute.
«Ci hanno rubato le terre – diceva – e ora vorrebbero rubarci l’anima… questo mai ».
E cosi, infatti, non è mai stato!
Bellissimo racconto, anche se triste. Ho sempre avuto un debole verso i nativi Americani, un popolo fiero, distrutto da noi bianchi