I racconti di MileniK,Le vostre storie

L’ora di ginnastica

Correva l’anno 1966 nel mese di novembre, in un paese qualunque sul litorale dell’alto Adriatico.

Un anno sfortunato questo per la Classe 2° B! 10 materie per 7 insegnanti tutti particolari. Il professore di italiano è il più strano: è fissato con la calligrafia e ci inquadra per altezza così che la mia amica, ipovedente, alta un metro e sessantacinque, sta di banco in fondo alla classe lontano dalla lavagna con evidenti difficoltà visive; la professoressa di matematica ha sempre freddo e pretende che facciamo i turni a tenere chiusa la finestra sulla parete voltata a est che si apre ogni volta che il vento supera la soglia di venticello. Il professore di religione ci vorrebbe tutte suore e continua a ripeterci come un mantra infinito che dobbiamo avere cura dei nostri indumenti intimi partendo dai calzini che non vanno mai lasciati incustoditi e addirittura che è un peccato gravissimo trascurarne qualcuno. Deve essere amico dell’insegnante di ginnastica che ci urla continuamente di non lasciare indumenti negli spogliatoi. Più che urlare la professoressa fischia: ha un fischietto rosso appeso al collo e ci comanda gli esercizi a suon di fischiate tanto che, alla fine dell’ora, siamo tutte stressate e con i timpani scoppiati. 

Vogliamo parlare del professore di disegno? Potremmo fare i disegni già a casa, tanto è monotono nel proporre i temi. Fuori piove e tira vento? Il tema sarà: “Una giornata di pioggia al mercato”, altrimenti, in caso contrario “Una giornata di sole al mercato”. Ogni volta vuole che aggiungiamo un particolare in modo che impariamo a osservare tutto. Il mercato! In paese di mercati ce ne sono ben tre: uno di generi vari in centro nella grande piazza, uno del pesce permanente nel palazzodedicato al mare e quello della verdura lungo la via della Torre.

Purtroppo l’ora di ginnastica cade sempre quando c’è il mercato e noi della seconda B, che non abbiamo la palestra agibile, per via del cedimento di una parte del pavimento, dobbiamo recarci a quella esterna, in via della Torre, alla quale ci accompagna il bidello che, noi delle medie, abbiamo soprannominato “pirata” non solo perché ha un occhio di vetro ma soprattutto per la sua mania di urlare comandi e rimproveri repentini con quel vocione acuto che spaventa. 

Fu proprio durante un giorno di mercato, in quell’anno e in quel mese dinovembre piovoso e freddo che provai per la prima volta la vergogna. Ricordo bene quel momento:

Ieri sera al telegiornale hanno detto della tragedia che ha colpitoFirenze. La situazione è grave, le immagini in bianco e nero che scorrono in tv mi fanno rabbrividire, l’acqua che vortica nelle strade sembra più minacciosa del mare in burrasca… 

È freddo quest’anno, anche qui la situazione è grave, il mare è grosso, piove da giorni, la legna per la stufa si è inumidita e non scalda molto. 

«Ha detto il professore di italiano che dobbiamo portare a scuola i soldi nel nostro salvadanaio da mandare ai bambini di Firenze perché sonorimasti senza vestiti e senza quaderni» dico alla mamma mentre mi siedo a tavola al ritorno da scuola, preoccupata perché io, un salvadanaio, non ce l’ho mai avuto. La mamma mi riempie il piatto di maccheroni fumanti mentre il babbo ci parla dell’alluvione. Lui ha notizie fresche, fa parte delle Forze dell’ordine e certe informazioni corrono veloci di caserma in caserma. Il Comandante ha chiesto agli agenti più giovani di raggiungere i colleghi alluvionati per dare una mano a salvare i documenti conservati negli archivi di Stato. Ma questo non risolve il mio problema: il salvadanaio! Cosa porterò a scuola domani?

«Non ti preoccupare, siamo noi il tuo salvadanaio, domani porterai anche tu qualcosa. Adesso finisci di mangiare e fai i compiti senza lamentarti, fai un fioretto per quei bambini sfortunati, quelli sì che servono!» mi dice il babbo e per un attimo mi chiedo perché Gesù abbiabisogno del mio fioretto per dare una mano ai bambini di Firenze, non potrebbe occuparsene lo stesso? Lo sguardo severo di mio padre mi distrae e mi impegno al massimo per non farlo arrabbiare. 

Oggi avremo ginnastica e nonostante il vento freddo dovremo attraversare il mercato della verdura, spero che almeno non piova. Mi sembra un’ingiustizia che non possa indossare le calze lunghe di lana sotto la gonna solo perché ho dodici anni, che c’entra l’età? Non si valuta secondo il freddo? Io ho molto freddo, soprattutto alle ginocchia. Ma la risposta è sempre la solita: sono ancora troppo piccola per quelle cose. Non ho capito il senso, sembra che il gelo faccia bene alle gambe delle donne: più fa freddo più vengono belle.

Il professore di italiano è ammalato e il supplente non sa del sacrificio che ha chiesto a tutti noi e, quindi, nessuna alunna ha il coraggio di vuotare il proprio salvadanaio sulla cattedra e spera, in cuor suo, di potere tenere per sé i soldi messi da parte per quando arriveranno le giostre. Io non ce l’ho non mi pongo il problema oltretutto la mamma si è dimenticata di darmi “qualche cosa”, figuraccia rimandata. Quando suona la campanella ci prepariamo per andare in palestra. 

Il bidello si presenta alla porta e ci invita a fare presto che ha da lavorare. Riunite in fila per due usciamo dal portone e una volata di gelo ci investe. A metà percorso avverto un rumore leggero ma drammatico che cambierà per sempre la mia giornata. Si è rotto qualcosa nel mio vestiario, un elastico ha ceduto ai troppi lavaggi e all’usura del tempo. Mi basta un attimo per capire quale elastico ha ceduto e il terrore mi blocca in mezzo alla via. Le urla del pirata si fanno immediatamente sentire e la mia compagna mi tira per un braccio. Riparto e le confido che mi si è rotto l’elastico delle mutande e che ho paura di perderle. Rimaniamo in fondo alla fila sotto l’occhio sospettoso del bidello.

«Se andasse a guardar quello che fanno in prima fila invece di stare qui dietro!» dico disperata alla mia amica. Lei si tiene la pancia, ho il vago sospetto che stia per ridere e la fulmino con gli occhi, non c’è niente da ridere, sto in mezzo a un dramma, l’indumento non può rimanere al suo posto presto cadrà e io che farò? Il peccato più grande, Dio mi fulminerà sul posto, come dicono sempre tutti, uno scandalo!.. 

Entro al mercato, che altro posso fare? La mia compagna oltre che la pancia ora si tiene anche la mano sulla bocca, ho quasi voglia di piangere, manca poco, sento l’indumento scendere lentamente, ad ogni passo, presto arriverà al punto di non ritorno e il dramma e la vergogna mi copriranno dalla testa ai piedi e lei osa ridere.

«Ma dai! Non se ne accorgerà nessuno, vai tranquilla, cadono, le pesti vai avanti, guarda quanta gente c’è oggi!» mi dice serenamente. Il freddo si insinua sotto la gonna e mi accorgo che l’indumento di lana è sceso già di un bel po’. Mi fermo e la mia amica spiega al bidello che mi fa male un piede che veniamo piano piano, che vada avanti lui.

Sto per piangere: le sento, scivolano lente ma inesorabili! Che figuraccia! 

Mi fa male lo stomaco dalla paura di essere additata da tutte le brave massaie in giro, loro son coperte bene, hanno le calze lunghe e se avessi avuto il reggicalze questo non sarebbe successo. Invece accade, all’improvviso, quasi ci inciampo sopra, la mia amica si piega a metà e io sento di odiarla, di non sopportare questa sua incomprensione, sto vivendo un dramma e lei se la ride? Non può essere. Infatti non è! Si china per prenderle mentre io mi avvampo di rosso fuoco e mi blocco con gli occhi pieni di lacrime, il bidello arriva di corsa, “che succede qui, muovetevi siete le ultime” e lei, la mia super amica, infila l’indumento pesticciato in tasca del cappotto e dice candida come una bambina di dodici anni!

«Mi sono fermata perché alla signora è caduta una mela!» ma non c’è nessuna signora e nessuna mela. Nel mio stomaco sembra che ci siano delle rane saltellanti, sono scombussolata e non mi rendo conto di cosa giri intorno a me. So che arrivata alla palestra si presenterà un altro problema, altra vergogna alla quale sembra impossibile sottrarsi: mi dovrò cambiare e sono l’ultima, tutti guarderanno me, anche la professoressa con il fischietto. Ci dobbiamo cambiare sulla panca, sotto i cappotti, non c’è uno spogliatoio a parte, c’è a malapena il gabinetto. Temporeggio un po’ poi decido che è meglio una strigliata che una altra figuraccia e chiedo di usare il bagno con urgenza, prima di cambiarmi. Porto con me i pantaloncini e finalmente riesco a ritrovare la serenità.

Più tardi finita la lezione, lo stratagemma di lasciare i pantaloncini al posto dell’indumento rotto, sarà possibile solo grazie alla complicità di due altre compagne. La professoressa non vuole assolutamente che si tengano i vestiti della ginnastica e ci controlla attentamente.

La mamma e il babbo a casa non hanno capito la mia vergogna, forse le loro sono solo parole, forse non è vero che perdere un paio di calzini o mutande durante le ore di scuola è un grave peccato. 

Ma l’ho capito dopo quando, anche io, ho visto il mondo e i suoi pericoli con occhi da genitore.

Quella giornata è rimasta indelebile nel ricordo di molte persone diventando, per fortuna, un aneddoto di comicità e allora davvero come Giusy, la mia super amica, parlandone, ci teniamo la pancia dal ridere.

L’ora di ginnastica

 

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Milena Beltrandi

Emiliana a Firenze dal 1970, fa parte del Gruppo Scrittori Firenze. Scrive dal 2017. Alcuni suoi romanzi hanno ottenuto menzioni e premi come: il Nabokov, l’internazionale Pegasus Montefiore Conca, La Ginestra monologo teatrale e III° x racconto La Città sul Ponte. Ha partecipato a 5 antologie a tema e pubblicato una propria raccolta di racconti e ricette Attualmente fa parte della giuria per La città sul ponte.

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