Tra genio e spregiudicatezza
«C’è al mondo una sola cosa peggiore del far parlare di sé: il non far parlare di sé».
Questo è uno dei tanti aforismi lasciati dal più irriverente ed eccentrico autore della letteratura occidentale.
Avrete certamente capito che stiamo parlando dell’unico, del solo, dell’ inimitabile Oscar Wilde!
Oscar Fingal O’Flaherty Wills Wilde non ha mai scritto un libro di aforismi, eppure le sue frasi – estrapolate dai suoi libri e dai suoi discorsi – sono le più conosciute e citate dagli appassionati della forma breve. Addirittura a lui vengono attribuite frasi che forse non ha mai scritto né pronunciato.
Nato a Dublino il 16 ottobre 1854 e morto a Parigi il 30 novembre 1900, Oscar Wills Wilde è stato un protagonista della scena internazionale, segnalandosi soprattutto come romanziere, poeta e drammaturgo. Nei suoi scritti si pose lo scopo di invitare i lettori alla riflessione, anche attraverso l’uso di aforismi e paradossi.
Fu condannato a due anni di carcere per violazione della legge sulle regoli morali in tema sessuale.
Scrisse molte opere ma, su tutte, quella che più lo rappresenta è sicuramente Il ritratto di Dorian Gray, romanzo pubblicato nel 1890 e revisionato nell’anno successivo, che ha ispirato in seguito numerose trasposizioni cinematografiche, fino ai giorni nostri.
Oscar Wilde, tramite tutta la sua produzione letteraria, portò la dottrina dell’estetica alle sue massime conseguenze. Per Wilde, l’artista doveva essere libero da ogni obbligo nei confronti della società, perché questi legami gli avrebbero impedito di raggiungere il fine ultimo del bello: l’epoca vittoriana, in cui egli visse fu, in effetti, letteralmente spaccata in due dall’ipocrisia imperante della classe dirigente e dallo sfruttamento di tutte le altre classi.
Nelle sue opere egli non fece altro che rappresentare la forma concreta dell’estetismo: per esprimersi al meglio, fece un uso quasi esasperato dei paradossi, vale a dire dei ragionamenti a primo avviso contraddittori all’opinione comune e che perciò sorprendono: in questo modo descrisse la società, ridicolizzandola, pur vivendola egli stesso perfettamente a proprio agio.
Del resto, Oscar Wilde era un dandy, e la società vittoriana fu il suo habitat perfetto!
Negli ultimi anni della sua vita egli si avvicinò alla religione cattolica, ma nessuno sa né quando, precisamente, né come avvenne questo mutamento. Sappiamo però che, per quanto la religione sia sempre stato un argomento serio, Oscar Wilde riuscì a spiegarlo solo attraverso un ennesimo paradosso: «Io non sono un cattolico, sono semplicemente un acceso papista».
Sicuramente questo avvicinamento al cattolicesimo avvenne dopo la fine della sua detenzione carceraria. Forse era un modo di sentirsi ancora parte di qualcosa visto che tutto e tutti (famiglia compresa), gli voltarono le spalle!
Agli occhi della società dell’epoca, egli aveva amato nella maniera sbagliata ed in modo immorale e per questo egli dovette essere punito. Per sanare la sua pena non bastarono gli anni trascorsi in carcere; quando ne uscì venne ostracizzato dalle stesse persone che tempo addietro erano stati suoi amici e devoti spettatori delle sue opere.
Ma Wilde seppe accettare questo esilio forzato, non senza però ricordare agli altri che :«Siamo tutti nel rigagnolo: ma alcuni di noi fissano le stelle».
Potremmo concludere affermando che egli fu un uomo che dedicò la sua intera esistenza all’ironia ed ai paradossi; anche sul letto di morte mentre sorseggiava champagne, non potè fare altro che essere se stesso, per un ultima volta:
«Ahimè! Sto morendo al di sopra delle mie possibilità!».
Genio e sregolatezza, Oscar Wilde ne è stato un prototipo: rompere un paradigma attraverso la proposta di un paradigma differente, superare una regola istituendone un’altra, una costante rottura di equilibri vecchi per poterne produrre di nuovi, nella propria attività e, forse, anche in se stessi.