Ogni oggetto ha una storia
Sto buttando all’aria l’armadio sperando di migliorare la sua capacità di stivaggio dei vestiti estivi e invernali sempre troppo scarsa. “Dovrò buttare qualcosa” penso. In quel momento una scatoletta mi cade sulla testa, la guardo sorpresa: non ricordavo di averla riposta in alto. La prendo, la sua forma cubica mi sorprende sempre: mi piacerebbe cambiarla ma è difficile trovare quel preciso formato. Sul coperchio spicca la scritta in rosso di un pennarello indelebile: MILENIK. Sorrido, faccio un calcolo veloce e mi rendo conto che il tempo vola quando ci si volta indietro, ed è terribilmente lungo se si vive una condizione difficile.
Lascio i vestiti sparsi sul letto ad agognare un posto e mi siedo con la scatoletta in mano. So cosa contiene, conosco la sua storia, ha diritto a un posto speciale nell’armadio. Prendo in mano i costumi da bagno e li infilo a forza nella scatola delle magliette, ma il mio pensiero va al contenuto della scatola. Forse dovrei regalarla. Quante volte mi son detta che dovrei darla via, non prestarla come ho fatto in questi anni, ma non è facile! È un regalo di mia madre, forse l’unico fatto col cuore, solo per me. Non che non abbia mai avuto regali per me prima, ma c’era sempre un’omogeneità con il regalo per mia sorella, il compleanno, la promozione… questo, per fortuna, era solo mio. Ricordo quando ha firmato l’assegno davanti a me e alla commessa che sfoggiava un sorriso enigmatico, contenta per aver guidato la scelta più adeguata anche se il motivo della nostra presenza non era proprio di spensierata felicità.
Mi batte il cuore a mille quando decido di aprirla e vedere in che condizioni è. Forse è un caso ma mi sembra di sentire, nella mia, la mano della mamma. L’apro: di capelli si tratta, sono capelli veri, cuciti con maestria e pettinati con altrettanta bravura. È ancora molto bella: i capelli sono lucidi, di un bel colore marrone ambrato, leggermente tendente al rosso. Passo le dita e li trovo ancora soffici come il primo giorno che l’ho indossata. Stringendola mi guardo allo specchio: ho tanti capelli bianchi adesso, sono passati quindici anni, non potrei metterla più.
Mi rivedo sulla soglia della sala, a casa dei miei, c’è mio marito accanto a me e, nascoste, le nostre mani si stringono: devo dire una cosa difficile e lui mi fa sentire il suo sostegno.
«Ho un tumore al seno! È piuttosto avanti ma il chirurgo mi ha detto che ce la posso fare, che la percentuale di sopravvivenza ai cinque anni è alta, anzi altissima e io sono bella forte!» dico tutto d’un fiato rendendomi conto che se fosse mio figlio a dirmi una cosa del genere io morirei.
Li vedo che si prendono per mano, si guardano, mi guardano. Poi mio padre, sperando in una risposta negativa, mi chiede se dovrò fare chemioterapia. Allora la gravità del tumore veniva valutata nel dover o meno fare la famigerata terapia. Quel monosillabo è terribile anche per me. So che il loro pensiero correrà subito a mia cugina, vittima del maledetto cancro poco più di un anno prima.
Il motto di famiglia per fortuna ha il sopravvento: Non si piange sul latte finché non è versato, e siamo pronti a lottare insieme dopo solo un attimo. Mio padre ha sempre storpiato per comicità i detti popolari come questo e ha pure modificato il dettato cristiano: Sopportare pazientemente le persone moleste a cui ci ha aggiunto … e pregare Dio perché muoiano presto!
Tra le mie mani la parrucca vuole essere protagonista e torno a guardarla: un bel taglio! Allora portavo i capelli corti anche se non mi sono mai piaciuti e avrei preferito una parrucca a capello lungo o un caschetto, ma la commessa mi fece notare che tutti avrebbero additato ai miei capelli improvvisamente diversi, mentre lo scopo era quello di non far presagire nulla. Allora ero d’accordo: la paura più grande era la reazione degli altri; oggi mi rendo conto dell’assurdità di quel pensiero: non sono nessuno, chi vuoi che faccia caso ai miei cambiamenti e, in fondo, che potrebbero dire? Che ho perso i capelli per la chemioterapia? Facile deduzione: non ho le sopracciglia, non c’è un pelo che sia un pelo in faccia, la mia pelle ha un colore tra il giallo e il beige indefinito e sono decisamente gonfia. Che c’è da sparlare?
Sempre per via del motto di famiglia, non credevo che la mia folta capigliatura avrebbe ceduto davvero dopo il quattordicesimo giorno dalla prima seduta, come mi avevano annunciato i dottori. È successo nel pomeriggio del giorno stabilito, e ricordo ancora le mie ultime parole:
«Vedi oggi è il giorno in cui dovrebbero cadere tutti insieme e invece son saldi al loro posto!» prendo una ciocca bella grossa di capelli e tiro e, tra lo stupore della mia amica e il mio terrore, mi rimane tra le dita senza sforzo alcuno.
Di corredo nella scatola ci sono ancora gli adesivi per la pelle. Ottimi, di forte tenuta. Ricordo che, al centro parrucchiere della ditta, me l’hanno messa coprendo lo specchio per tutto il periodo del taglio e l’applicazione per non farmi avere l’impatto con la mia testa pelata. Che terrore! Allora ero traumatizzata, forse non era solo per via dei capelli, gli effetti collaterali dei medicinali mettevano questo evento al margine, ritenuto irrilevante materialmente: era solo una questione psicologica, niente a che vedere con le altre terribili reazioni.
Ho poi superato quella paura. Quella è la vera lotta: superare ciò che ci sembra impossibile. Che altro modo c’è di lottare? La paura è la prima a presentarsi ed è la più forte arma del tumore. Riuscire a modificare la propria paura in altro forse è il segreto di sopravvivere oltre le cure.
Per superare quel momento ci voleva un eroe con tanto di mantello ed effetti speciali, ma poteva lottare per me? No dovevo farlo io, allora ho aggiunto una k al mio nome e tutto è stato più facile.
Ripongo la mia parrucca nella scatola cubica, tolgo lo scotch con la scritta MILENIK. Non mi serve più, ho deciso: domani vado dalla parrucchiera e gliela dò, che la regali o la presti non ha importanza; vorrei solo che quella carezza materna arrivasse ad altre donne e aiutasse loro a lottare.