Il gallo dell’Andriana
Era il gallo dell’Andriana.
Gliel’aveva regalato un contadino, un giorno di mercato. L’animale, l’unico che non era riuscito a vendere nella giornata, se ne stava impettito nella piccola stia. Nel lasciare il carretto lanciò l’orgoglio di un chicchirichì.
Non era da meno degli altri volatili che gli avevano fatto compagnia, il contadino si sentiva deluso perché la gente non ne aveva apprezzato il piumaggio iridescente e i bargigli infuocati. Gli avevano preferito le oche, due dindie grassocce e una nidiata di pulcini pigolanti nella cesta. S’era sgolato talmente che, passando davanti all’osteria dell’Andriana, non aveva esitato a fermarsi. Valeva la pena scolarsi un fiasco di quello buono, rosso e rabbioso al pensiero dei quattrini che gli ballavano in saccoccia.
L’osteria, a due passi dalla piazza del mercato, era conosciuta per il vino e per certe fette di salame grosse quanto un dito che l’Andriana offriva sul tagliere. Uno stanzone accoglieva i clienti con i tavoli di legno scuro, grezzo, le sedie impagliate e le mensole su cui s’allineavano i fiaschi. L’Andriana, affacciata al bancone dove occhieggiavano nel piatto le uova sode, mesceva il vino e parlava con gli avventori, le scappavano risate squillanti che le facevano gorgogliare la gola ed infiammare le guance. Era una bella donna con il viso morbido, i capelli spruzzati di grigio raccolti in una crocchia armata di forcine d’osso.
Che fosse stata sposata nessuno lo ricordava, viveva sola da tanti anni nelle stanzette al piano superiore dell’osteria. Sapeva giocare con gli sguardi degli uomini che frequentavano il suo locale; nell’indovinare chi non si decideva ad ordinare un secondo goto di bianco o di rosso lo stuzzicava sporgendosi dal bancone con la buona grazia della quale Dio l’aveva dotata: un paio di seni grossi e sodi che le stavano su senza corsetto, come le comari di malalingua sussurravano. A chi era troppo sboccato e tentava di allungare le mani, rispondeva con occhi bruschi e parole da carrettiere, non rinunciando a mollare qualche sberla sulle guance dei più audaci.
L’osteria pullulava di uomini dalla mattina alla sera; non era posto da donne e se in casa mancava il vino si spedivano i figlioletti, fiasco in mano, a comprarlo dall’Andriana.
Sulla tavola di Gigi Isandrello il fiasco di clinto non doveva mai mancare; la moglie allora mandava la figlia più grande all’osteria.
Emilia entrava spavalda nello stanzone odoroso di pane salame e di mosto, porgeva il fiasco all’Andriana e mentre lei lo riempiva, la bambina ammirava il suo vestito a fiori e la crocchia armata di forcine.
Le era simpatica l’Andriana anche se gli altri ne parlavano in modo misterioso. I discorsi sull’Andriana si dipanavano come lana del gomitolo e il filo era sempre lo stesso: quello che, di notte, accadeva nelle stanzette sopra l’osteria, che, neanche a farlo apposta, confinavano con la camera da letto degli Isandrello. Le case erano addossate le une alle altre nel quartiere, un cerchio di abitazioni che ricordava l’antico tracciato del borgo quando il paese era cresciuto all’ombra del castello.
Le pareti di solida pietra non erano sottili, in compenso le orecchie della signora Isandrello sensibili ed avide. Tra l’ascoltare il ronfo del marito e i rumori che provenivano dalla camera dell’Andriana, lei preferiva tendere l’orecchio fino allo spasimo ed immaginare i corpi avvinghiati che facevano cigolare le molle del letto. Alle prime luci dell’alba, dalle imposte schiuse, scorgeva un’ombra sgusciare fuori dall’osteria e non era mai lo stesso uomo.
Fiorivano pettegolezzi sulle bocche delle donne e i bambini, giocando a campanon, saltando la corda, correndo sulle lisariole, li ascoltavano ma non li capivano.
Sapevano che il suo nome era insolito, cosa c’entrava quella enne con il nome Adriana, più comune e banale?
Intuivano che l’avvenenza dell’Andriana creava scompiglio e malumore fra le loro madri, occupate ai fornelli, al mastello o a far figli: corpi sformati, mani arrossate dalla smorga, sguardi segnati di fatica e rassegnazione.
Vedevano che i maschi, giovani o vecchi, sposati o no, trascorrevano la serata all’osteria, a tracannare e battere le carte, fino a ora tarda quando ritornavano a casa ballonzolanti e con gli occhi lucidi.
Sentivano le nonne e le mamme raccontare che l’osteria era sempre esistita, ma come e quando l’Andriana fosse arrivata e ne avesse aperto i battenti nessuno lo ricordava.
Solo la vecchia signora, reclusa nella villa al di là della strada lo poteva sapere: s’affacciava alle finestre con il viso grinzoso e i capelli bianchi, ma i bambini la credevano una strega e la temevano, così si tenevano lontani dal suo giardino. Lei li chiamava con un cenno del dito, ma neppure i più coraggiosi si facevano avanti: nel vicinato si raccontava che la vecchia fosse pazza, nessuno l’aveva vista uscire dalla casa.
Il gallo fu gradito all’Andriana che lo mise a razzolare nel fazzoletto di cortile, dietro casa, fra il radicio de can, le casse dei fiaschi e i panni stesi al vento.
Alla donna che amava gli animali, da poco era mancato il soriano bigio che troneggiava spumoso sul gradino dell’uscio. Ne rimpiangeva la scomparsa, perciò s’affezionò al volatile ed invece di tirargli il collo, come il contadino le aveva suggerito, lo ingrassò ben bene, lo trattò meglio di un principino, lasciandolo zampettare in giardino e in casa, finanche in osteria. L’animale timido ed impaurito si muoveva a scatti, impennando il collo, l’occhio nero fisso nel vuoto, la zampa sospesa fino al momento in cui un rumore lo faceva scappare in cortile.
I clienti ridevano e scherzavano:
–Ocio Andriana, costù non l’è un capon!
–La se ga incocalio suso del galo…
–Ma se pol essar più cocal de cussì – sospirava la signora Isandrello – volerghe ben a na bestia insulsa!
–E par zonta, el fa na cagnara dela malora! – esclamava il marito che, facendo i turni di notte alla ferrovia, non voleva essere svegliato di buon’ora.
Invece il gallo cantava alle quattro spaccate del mattino. Sembrava che avesse inghiottito l’orologio che paron Bulegato, il cliente più affezionato dell’osteria, teneva appeso al panciotto e che consultava ogni ora con le dita che avevano pizzicato una presa di tabacco.
S’avvicinava la primavera e all’alba, nel paciolar di seleghe, stornelli, rondini e merli, si potevano cogliere tutte le sfumature dei richiami che i galli si lanciavano. Di galletti che razzolavano nel quartiere ce n’erano tanti: ogni casa aveva un cortile e ogni cortile ne ospitava almeno un paio circondati dalla corte di chiocce e pulcini nelle loro stie piccole o grandi. Da quando era arrivato all’osteria, sembrava che avesse voluto avvertire della sua presenza i volatili del vicinato e con essi dialogare. Alle voci degli altri, rauche e sgraziate, il gallo dell’Andriana ribatteva con chicchirichì che risuonavano di un impasto limpido ed imperioso; i galli arruffavano le penne, le chiocce accorrevano affascinate e da un po’ di tempo nei ponari le uova erano più lucide e grosse che mai.
Andriana covava il suo gallo con sguardo amoroso, sbriciolando le molliche sull’erba: il piumaggio era lustro, la cresta e i bargigli accesi, lo chiamava grattando la gola e schioccando la lingua e riusciva ad allungargli perfino una carezza.
Chi lo covava con sguardo furibondo era Gigi Isandrello il quale, al mattino, nell’agganciare le bretelle ai calzoni, sacramentava contro il gallo che lo svegliava di buon’ora.
Non si poteva andare avanti così!
Un pomeriggio, era la settimana di Pasqua, Andriana, sentendosi fiacca per l’arrivo del caldo, chiuse i battenti dell’osteria, si coricò sul letto, non senza aver dato un’occhiata al suo prediletto che razzolava tranquillo fra i ciuffi di pissacan. Il tramonto arrossava le imposte accostate, lingue di luce polverosa le bagnavano il volto e la risvegliarono.
Dalla finestra non lo vide né lo sentì.
–Forse è entrato nell’osteria…devo aver lasciato socchiuso l’uscio…
A paron Bulegato, in attesa impaziente che l’osteria riaprisse, chiese se l’avesse visto.
L’uomo tentò di tranquillizzarla dicendole che il galletto, attirato dalle gallinelle che correvano avanti e indietro, ne aveva seguita una per farle la corte.
-Me sento anca mi come un zovane de vinti ani- asserì pur pensando di non aspettare più la settantina.
Era scoppiata la primavera, la stagione degli amori: ranuncoli e margherite tappezzavano gli angoli umidi dei cortili; in fiore erano le pasqualine e i lillà; i salici di casa Isandrello piegavano i lunghi capelli fino a terra, ricoperti da foglioline argentee, cresciute improvvisamente in una notte. S’intrecciavano nell’aria i gridi delle rondini, i bisticci dei merli, i cinguettii delle seleghete, le note di un concerto che teneva svegli fin dall’alba per poi quietarsi a sera e cedere il posto a quello che intonavano i grilli e le rane dei fossi, al lume delle lucciole.
Andriana, quella sera, non si sentì tranquilla.
Un’agitazione le aveva attanagliato il petto; servì i clienti con poca voglia, quelli se ne accorsero e sembrò che nell’osteria si fossero spente le luci. A notte fonda si coricò l’Andriana e respinse le mani di Marino Toniolo che volevano spingerla verso la camera.
–Stasera no go vogia… – sussurrò la donna.
L’indomani del gallo nessuna traccia e la stia vuota aumentò la sua tristezza.
Quando Emilia entrò nell’osteria con il fiasco da riempire, la trovò seduta, per la prima volta con la crocchia floscia sulle spalle e gli occhi gonfi di sonno o di pianto.
Andriana le raccontò della scomparsa del gallo e la bambina si sentì stringere il cuore.
Avrebbe voluto consolarla, accarezzandole le guance profumate perché l’Andriana le piaceva davvero.
–Da grande sarò come lei… – e non le importavano i pettegolezzi e le maldicenze.
Avrebbe voluto confessarle che lei sapeva bene quale strada aveva preso il suo galletto.
–La mamma l’ha attirato con le fregolette di panbiscotto fino all’orto di casa nostra…
Avrebbe voluto raccontarle il momento in cui il padre con il taglio della mano l’aveva tramortito ed infine tirato per il collo, spiumato e messo in pignatta con butirro e osmarin.
–Quelle belle piume sono finite tutte dentro un sacco…
Avrebbe voluto descrivere la tavola apparecchiata, l’odore dell’arrosto, le manine dei fratelli che spolpavano le carni sode cosparse di rosmarino.
–Io non l’ho neanche assaggiato… mi sentivo tanto male… povero galletto…
Ma non aprì bocca, prese dalle mani dell’Andriana il fiasco viola di clinto, senza alzare gli occhi, con le guance che scottavano di vergogna s’allontanò di corsa.