Mi racconti una storia
E’ sprofondata nella vecchia poltrona di velluto, con i calzerotti che non riescono a riscaldarle i piedi gelati, gli occhiali di sghembo sul naso. Sta leggendo un romanzo della Invernizio, ma per la nipotina interrompe la lettura e comincia.
“C’era una volta una bambina povera.
Era nata al piano terra di un brutto casamento color pannocchia abbrustolita che tutti chiamavano palazon, due stanzette misere e squallide, piene di pulci e pidocchi che, un giorno, se le sarebbero portate via.
Era figlia di un muratore, padre irascibile ed ubriacone e di una madre malinconica e visionaria.
La più giovane di sei fratelli, tre femmine e tre maschi, cresciuti nella fame che mordeva la pancia e rodeva il cervello, allevati nel freddo di inverni che imperlinavano di ghiaccio il fiato e nello scirocco di lunghe estati sonnolente.
La bambina era arrendevole, allegra, un cuor contento. Correva a scuola per riscaldarsi al tepore della stufa di terracotta sempre accesa. Scriveva da mancina e si prendeva le bacchettate perché quella era la mano del diavolo.
Le facevano più male le “buganse” che fiorivano d’inverno sulle dita, quando il gelo ricamava i vetri delle finestre e ci voleva un’alitata calda e una bella strofinata per guardar fuori.
Giocava nel cortile con la “piagola” di stoffa cullandola con le ninne-nanne imparate a memoria e raccoglieva sassolini, bottoni vecchi, cocci, schegge, bastoncini di legno e li disponeva come stoviglie preziose su un’asse da lavare dimenticata.
Scampanellava ai cancelli per la strada correndo subito a nascondersi per non essere sgridata.
D’estate vagabondava negli orti, al pari dei monelli, sgraffignando ciliegie e corniole, uva bacò, melagrane e pomi de fero dal sapore di miele e di buccia grigiastra.
D’inverno avrebbe dato un occhio per una di quelle corse fantastiche sulla crosta ghiacciata del fosso con la lisariola dei fratelli.
Ma essi non glielo consentivano, era troppo pericoloso per la piccina di famiglia, la prediletta, alla quale la befana portava la calza rigonfia di bagigi, carrube, straccaganasse e qualche mandarino.
Aveva sempre tanta fame e così si era inventata un gioco segreto: quello di tenere in bocca, da un lato la fettina di salame, dall’altro il boccone di polenta e li succhiava pianinoprima l’uno, poi l’altro, per non consumarli troppo presto e non perdere neanche un grammo di sapore.
Sapeva di trovare a tavola cicoria dei campi, fette di polenta da intingere in poche gocce d’aceto e renghe insecchite.
Non si lamentava, ritrovava presto il buonumore. Le sue risate squillavano nei bui corridoi del palazon.
La bambina povera crebbe e divenne una graziosa giovanetta, amante del ballo, del filet e della buona tavola.
Ballò a dispetto del divieto paterno, finché non si sposò. Imparò l’arte del filet per ricamare tovaglie e cotte di chiesa ma non divenne mai una buona cristiana. Imparò a cucinare ottimi manicaretti e ben presto si arrotondò nei fianchi e nel petto.
Così, piacendo ad un giovane incontrato nella balera, conobbe colui che credeva fosse l’amore. Per ben tre volte si tagliò il dito con l’anello di fidanzamento.
Per ben tre volte quello crebbe di nuovo.
Lo sposò e finì il tempo dei balli e del divertimento. La giovinezza passò in un lampo.
Ma la bambina povera, divenuta moglie, madre, nonna, non perse mai il buonumore, continuò ad essere un cuor contento.
Anche quando il marito scomparve e la vecchiaia la provò caricandola di lutti, acciacchi e dolori.
Si arrese solamente una volta.
Fu quando si accorse che batteva i denti per il freddo che sentiva dentro, un gelo sconosciuto che incancrenì le viscere, le carni, le fece perdere il sorriso, le spense la fiammella di allegria negli occhi, le rattristò il cuore.
Il giorno in cui chiuse gli occhi per sempre, al capezzale dell’ospedale dove era stata ricoverata, non c’era nessuno.
Le figlie, stanche di lunghe veglie, si erano allontanate per una boccata d’aria, il figlio, eterno ritardatario, entrò nella stanza giusto in tempo per non essere riconosciuto. Nella nebbia del dolore che le offuscava la mente, per un momento lo scambiò per sua madre e chiamò:
-Mamma …
La nipotina l’ascoltò perché voleva imprimere nella testa quella fiaba per poterla ricordare e narrare, poi chiese:
-E’ vero nonna, che sei morta? I fantasmi esistono sul serio? Hai visto le monache resuscitate e i folletti e le streghe del cimitero?
-Eh no – rispose la nonna con un sorriso – i fantasmi, bambina mia, non esistono, né le monache resuscitano per vendicarsi del perduto amore. Qui al cimitero fa tanto freddo, è buio e si è soli. Come mi piacerebbe ritornare laggiù da voi, a ridere, ballare, a farmi raccontare che gli uomini sono capaci di viaggiare tra le stelle, hanno sconfitto le malattie, sono riusciti a vincere la fame, la guerra, l’infelicità!
Cara bambina mia, credimi, qui da morti, come da sposati, se sta “na passua!”
Nota: nel testo vi sono parole e modi di dire in dialetto veneto:
star ‘ na passua = un’eternità
palazon = palazzo
buganse = geloni
lisariola = piccola slitta
straccaganasse = castagne secche
renghe = aringhe