Poesia

Dove sei tu, quella è casa

Emily Elizabeth Dickinson nasceva il 10 dicembre di centonovantaquattro anni fa, nel 1830 ad Armherst, nel Massachusetts.

Considerata una delle maggiori poetesse degli ultimi due secoli, ancora oggi i versi da lei scritti riescono ad appassionare per la toccante sensibilità espressa nei testi, come anche per i contenuti fortemente innovativi della sua poesia.

La natura, per la quale la poetessa provava un amore praticamente incondizionato, occupò uno spazio considerevole nella sua produzione poetica; anche l’amore, vissuto come esperienza intima e platonica, e la morte, sentita con forte afflato spirituale e per certi versi quasi mistico, ne fecero parte.

Ella condusse un’esistenza tormentata e sempre molto isolata. In vita non vide neppure mai riconosciuto il proprio talento poetico: sarà solo il Novecento a renderle una giustizia postuma, collocandone le opere tra i punti massimi della letteratura moderna e contemporanea.

Sin da bambina, la più grande poetessa americana mostrò uno spirito ribelle e ostile nei confronti degli insegnamenti puritani che le venivano imposti dalla famiglia. Il padre, un noto e ricco avvocato, la costrinse a lasciare la scuola superiore dopo appena un anno di frequentazione, preoccupato del potere deleterio che potesse avere sulla figlia la conoscenza. Per tutta risposta, la giovane abbandonò ben volentieri il seminario femminile di Mount Holyoke -dove era stata iscritta- non prima di aver commesso l’atto eversivo di non dichiararsi pubblicamente cristiana!

Per continuare i suoi studi divenne autodidatta e, prima di dedicarsi alla poesia, amò trascorrere parte del suo tempo libero scrivendo lettere agli amici. Sembra che durante la giovinezza Elisabeth abbia condotto una discreta vita sociale, sebbene non arriverà mai a sposarsi, nonostante alcune storie d’amore irromperanno nella sua vita. Di fatto, ella non le vivrà mai completamente.

Ma dopo avere compiuto i venticinque anni di età, ogni sua attività sociale si interrompe: la giovane si ritira a vita solitaria e comincia a dedicarsi con passione alla poesia.Ella vedrà in essa come un cammino di crescita spirituale verso l’intima conoscenza di sé, un mezzo per meglio penetrare il senso della vita.

Isolatasi volontariamente, lascerà così fluire la sua poesia, nata dalla contemplazione della natura, dalla meditazione e dallo studio dei suoi autori preferiti: Shakespeare, Keats ed Emily Bronte.

Le ragioni che la indussero a ritirarsi in solitudine non sono mai state chiare. Alcuni studiosi ritengono che la scelta sia stata dettata da un amore contrastato ma, più probabilmente, la poetessa -consapevole della sua impossibilità di instaurare una relazione positiva con il mondo- maturò la decisione di dedicarsi in solitudine a quella che lei considerava quasi una missione: scrivere poesie.

Così prese a vestirsi tutta di bianco e si rinchiuse nella sua stanza. La sua esistenza solitaria venne interrotta soltanto raramente da qualche visita. La sua corrispondenza, solo con pochi amici scelti, fu invece assidua.

Emily scriveva con l’occhio di una naturalista sui paesaggi del New England e trattava la natura come divinità, una metafora dell’essere. Amava ed ammirava il mondo naturale. All’Homestead, dove visse almeno per quindici anni della sua vita, la poetessa s’esaltava grazie ai «far theatricals of day» che osservava nel podere di suo padre. Queste osservazioni divennero fonte per i suoi versi.

Avendo studiato botanica, la Dickinson compilò pure un herbarium, praticamente un vero e proprio book di esemplari di piante; soprattutto amava curare quelle esotiche in un serra. Allo scopo fece realizzare un  fabbricato che aggiunse alla villa nel 1855 ma  di esso, oggi, non è rimasta traccia.

Nella sua stanza, insieme ai ritratti di famiglia teneva sempre dei fiori; a questo modo ella si rifugiava dal mondo ma aveva modo di osservarlo, come facendo uso di una una lente di ingrandimento: e, man mano che studiava la natura e l’animo umano più intensamente, si distaccava dal mondo esterno.

Fin da adolescente Emily vestì una precoce pensosità, una tendenza – anomala per l’età – a volgersi indietro. Vibrava di malinconia alla sensazione che il meglio fosse già passato o stesse passando, proprio nell’istante in cui lo viveva: «I fanciulli che eravamo sono sepolti e le loro ombre continuano faticosamente il loro cammino» scriveva all’amica Abiah Root, a fine 1850.

Il rimpianto del presente è un ossimoro: al tempo Elisabeth aveva 20 anni, ma era poco più che bambina quando iniziò a provarla, questa nostalgia insolita per cose ed esseri che l’incantavano, o che le regalavano abbagli di felicità. Visse sempre accompagnata al timore che – oscuramente o precocemente – il tempo potesse inghiottirli.

La  sua indole ribelle e la sua creatività fine a se stessa, fecero si che ella  non sentì alcuna esigenza di notorietà. Non aveva bisogno di pareri esterni per convalidare la sua identità e i valori in cui credeva. Rifiutando caparbiamente quel cammino maschilista, già prestabilito, di proseguire gli studi per diventare insegnante – l’unico percorso previsto per le donne intelligenti in alternativa al matrimonio – compì la sua piccola rivoluzione isolandosi da una società cui non sentiva affatto di appartenere.

Chiusa nella sua stanza osservava  il suo giardino e ne descriveva gli insetti, i fiori, i mutamenti delle stagioni e delle diverse ore del giorno, simboli del cambiamento continuo di quella breve avventura chiamata vita. Il suo più grande amico fu il suo cane terranova Carlo. Quando il cane verrà a mancare, la Dickinson non uscirà mai più dalla sua stanza.

Addirittura arriverà a nascondere le sue poesie (ritrovate nella sua scrivania ma solo dopo la sua morte), trascorrendo l’intera sua vita alla ricerca ostinata di risposte da un Dio che sentiva silenzioso quanto assente. La sua reclusione fu una scelta contro la vanità e l’oppressione di una società a lei distante e la sua priorità divenne quella di «possedere l’Arte dentro l’anima» donando al mondo delle liriche particolarmente suggestive.

Lo stile di Emily Dickinson è caratterizzato da componimenti poetici brevi e quasi del tutto sprovvisti di punteggiatura, dall’uso di lettere maiuscole volte ad enfatizzare alcune parole e dall’utilizzo di trattini per spezzare le frasi e simulare il ritmo del respiro. Ne emerge, così, una produzione poetica intensa e scevra di regole che influenzerà molto la lirica moderna

I temi da lei trattati investirono l’amore, la natura, la fugacità della vita e la dolorosa certezza della morte, mitigata dalla speranza dell’immortalità che consentirà a ognuno di noi di ricongiungersi con le persone amate. Poco prima di morire scrisse: «Credo che il primo che mi verrà incontro quando andrò in paradiso sarà il caro, fedele, vecchio Carlo».

Morirà a causa di una nefrite il 15 maggio del 1886, in quella che era la casa dei suoi genitori; il desiderio da lei espresso che il corteo funebre passasse per i suoi amati campi, venne esaudito.

Fu Sue, la cognata e amica a cui fu legata in una “sorridente connivenza di ragazze con tanti sogni” a comporre il vibrante necrologio: esso apparve senza firma, qualche giorno dopo la sua dipartita, sul giornale cittadino: «La sua arguzia era come una lama di Damasco scintillante al sole. La sua fulminea estasi lirica somigliava alla nota prolungata di un cantore nei boschi di giugno, a mezzogiorno: lo si ascolta, ma non lo si può vedere. Il rimpianto del presente – eterno – l’ha presa con sé! »

Finché fu viva videro la pubblicazione non più di sette dei suoi componimenti. Il mondo potè conoscere la grande poetessa che fu, soltanto dopo la sua morte.

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Barbara Chiarini

Barbara Chiarini nasce a Firenze nel 1967. Laureata in Architettura con indirizzo storico-restauro e conservazione dei Beni Architettonici, si ritiene un architetto per professione, una scrittrice per passione, ed una fiorentina D.O.C. Autrice del libro “Per le Antiche Strade di Firenze”, “Una finestra affacciata dull’Arno” e “Su e Giù per le strade di Firenze”, ella è anche la fondatrice nonche’ uno degli Amministratori di questo Blog.

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