Le vostre storie,Racconti

Tredici più uno

Da bambina mi spedivano in colonia in una colorata cittadina affacciata sul mare. All’arrivo le vigilatrici mi spogliavano del vestito di cotone ricamato e mi facevano indossare un paio di calzoncini azzurri e una maglietta a righe multicolori. Nei sandaletti di gomma bianca con gli occhietti rotondi sulla tomaia i miei piedi si trasformavano nel musetto di un topolino irrequieto.

Mi circondavano tanti musetti di topolini irrequieti che non conoscevo. Dapprima mi sentivo a disagio, la nostalgia mi assaliva al pensiero della cara mamma e del papà mattacchione lasciati in città e non bastavano a consolarmi le fette di pane, burro e marmellata, i giochi sulla sabbia, le nuotate col salvagente e i girotondi.

“Giro giro tondo casca il mondo

Casca la terra tutti giù per terra”

Piangevo come una fontana i primi giorni, poi improvvisamente tutto cambiò. Nella squadra eravamo tredici bambini, veramente tredici musetti di topolini irrequieti che saltavano, correvano, giocavano.

Topolino topoletto zumpapà

Si è ficcato sotto al letto zumpapà

E la madre poveretta zumpapà

Gli ha tirato una scopetta zumpapà.

Non li conoscevo per nome, perché in colonia ci toglievano quelli veri e per gioco ognuno doveva trovarne uno di fantasia. Io avevo scelto Violetta che, oltre ad essere un fiorellino delizioso, è un colore dell’arcobaleno. C’era chi si era soprannominato Sputnik perché era affascinato dai razzi che viaggiavano fra le stelle e il suo salvagente sembrava davvero un’astronave stellare. Le altre bambine, cinque in tutto, erano Stellamarina, Alga, Sole e Perla. Sputnik era un bambino intelligente, vivace, generoso, buffo: un razzo a propulsione atomica che faceva crollare il mondo, non stava mai fermo: toccava, tastava, palpeggiava, pestava con piedi e mani nervose, insisteva, urlava.

Lo ammiravano due bambini chiamati Roby e Quattordici (ve li ricordate i due pennuti cartoni animati della tv?)

Provenivano da tutte le regioni d’Italia e Simbad sosteneva di essere figlio del sultano di Bagdad, ma chi gli credeva?! Simbad che scoprimmo provenire da Milano non mi piaceva, era presuntuoso, saccente, prepotente con Stellamarina perché le effe le s’incastrava fra i denti e tutte le parole con la effe le uscivano ventose dalla bocca.

La bella lavanderina che lava i fffazzoletti

Per i poveretti della città.

Fffai un salto, ffanne un altro, ffai la giravolta, ffalla un’altra volta…

Perla non mi era punto simpatica aveva occhietti piccoli e neri, due capocchie di spillo pronte a pungere e a ficcarsi nei pasticci altrui. Non sopportava di partecipare ad un gioco se la squadra era troppo debole ed era talmente dispettosa che faceva di tutto per far perdere le partite ai propri compagni. Mi piacevano Alga, Sole ed Azzurra perché erano allegre, pettegole giusto quel che bastava per andarci d’accordo. Io ero l’unica a giocare con i maschietti. E di maschi ce n’erano sempre troppi che avevano in testa una sola cosa.

Perché perché la domenica mi lasci sempre sola

Per andare a vedere la partita di pallone

Perché perché una volta non ci porti pure me!

Tre si erano perfino soprannominati Ala Destra, Limparabile (scarso in ortografia) e Gol.

Gol era un vero campione: veloce, astuto, un musetto simpatico di topolino che piaceva a tutti, ma che, ahimè, perdeva a malincuore con gli occhi lucidi di pianto e la bocca storta. A volte le partite erano interminabili, faticose sulla sabbia e le vigilatrici stentavano a fermarle. Discussioni, grida, polemiche finivano quando ci distribuivano una grossa fetta di pane, burro e marmellata per la merenda.

Una mattina arrivò un bambino con la pelle scura, più scura della mia sicuramente perché con il sole diventavo sì rossa come un pomodoro ma poi mi spellavo tutta. Veniva da un paese lontano. Era magro, imbronciato, sempre affamato, leccava il piatto della zuppa, raccoglieva le briciole del pane: mi sembrava un uccellino sperduto. Non volle scegliersi nessun nome di fantasia, così noi iniziammo a chiamarlo Maciste. Lo guardavamo con sospetto e curiosità. Non lo capivamo, parlava poco e con un linguaggio incomprensibile, in compenso però menava molto: pugni, calci, spinte, sputi erano all’ordine del giorno e le vigilatrici non sapevano più che pesci pigliare. Tra Maciste e Sputnik fiorì un’antipatia irragionevole, improvvisa: Maciste non sopportava di essere toccato, rubava dal piatto di Sputnik gli avanzi di carne o formaggio e questo scatenava le urla frenetiche di Sputnik. Con le bambine non andava meglio. Le canzonava, cercando di tirare giù i calzoncini di Sole e di Alga, faceva strillare Stellamarina cui strattonava la lunga treccia bionda e derideva me e Azzurra che, in santa pace, ci scaccolavamo il naso senza che gli altri ci vedessero. Gli unici che gli andavano a genio erano Limparabile, Perla e Gol: Maciste amava giocava a pallone, non era agile e veloce come loro, così le partite finivano in zuffe e feriti.

Gol e gli altri calciatori presero una decisione: bisognava insegnare a Maciste le regole del gioco. Le cose andarono meglio e le vigilatrici tirarono un sospiro di sollievo. Maciste non sapeva disegnare che pupazzi scheletrici con testoni che parevano palloni e dita lunghe ed adunche. Mi venne un’idea: io e le altre bambine cominciammo a prestargli i nostri colori e la bravissima Alga gli disegnava enormi soli raggianti ed io arcobaleni fluttuanti nel cielo come aquiloni.

A proposito, nella gara di aquiloni, che inaugurò Ferragosto, Roby, Quattordici, Simbad e Ala Destra lo aiutarono a costruirne uno e a farlo volare. Non vinse la gara il suo aquilone, che finì impigliato tra i cespugli delle dune, ma quel giorno Maciste non picchiò nessuno.

Imparavamo a conoscerlo, a conoscerci, a non provocarlo, a non provocarci. Sapeva zufolare coi pezzi di canna che le onde ci regalavano di tanto in tanto e strabuzzava gli occhi in un certo modo facendoci sbellicare dalle risa. In una sola cosa potevamo aver la rivincita su di lui. Maciste aveva un terrore sacro dell’acqua e non azzardava a toccarla nemmeno con la punta dell’alluce. Non ci sognavamo di deriderlo; Roby e Quattordici l’avevano fatto con il bel risultato di prendersi un pugno nella pancia. Scommetto che ciascuno di noi lo immaginava dibattersi tra le onde del mare ed infine scomparire in un ribollio di schiuma

Un giorno decise di provare con il salvagente e così, poco lontano da riva, sgambettava in acqua ridente come non l’avevamo mai visto. Qualche giorno dopo qualcosa mise in allarme le vigilatrici. Maciste si era avventurato più distante dalla riva e con le braccia sguazzava freneticamente. Ad un tratto la testa scomparve, il salvagente fluttuò come un’alga, ricomparve Maciste a bocca aperta, un grido strozzato in gola. Una vigilatrice si tuffò e rapidamente lo raggiunse, lo tirò a riva. Abbandonammo castelli e torri di sabbia, conchiglie e pallone.

Quello che accadde dopo lo ricordo a malapena, come tanti ritagli di foto strappate: il rivolo d’acqua che usciva dal naso e dalla bocca di Maciste, il volto angosciato della vigilatrice, il salvagente floscio raccolto sulla battigia da Sputnik. Fu trasportato a letto, venne il medico, lo visitò: l’intervento tempestivo della vigilatrice gli aveva salvato la vita. A turno lo andammo a vedere: aveva gli occhi chiusi, il viso bianco come il lenzuolo tirato al mento.

Fu appurato che sul salvagente c’era un foro. Ci dissero che Maciste sarebbe partito alla volta del suo paese lontano non appena in grado di camminare.

Il giorno della partenza, ognuno di noi lo salutò con un piccolo dono: una canna spezzata, una figurina di Sivori, un aquilone acciaccato, una conchiglia trasparente, una caramella di carta stropicciata e per ultimo, il salvagente stellare di Sputnik.

Luglio 2008

 

Tredici più uno
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Loredana Facchinelli

Loredana Facchinelli, 1955, classe di ferro e nuvole, felice nonna di Niccolò, è una maestra in pensione che ama scrivere fin da quando era bambina. Si definisce così: “Mi sento come una coppa spumeggiante di bollicine …a volte è champagne, altre volte solo bicarbonato di sodio”!

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