Lettera
E’ morto un caro amico. Un caro amico mio e dei miei genitori ancor prima di me, un vecchio amico, quasi coetaneo di papà.
Ho avuto la fortuna di averlo conosciuto fin da bambinetta, quando papà mi portava ad incontrarlo, con le mie scarpette di vernice lucida alla bebè, le calzette di cotone bianco tese ai polpacci e la mamma aveva già lisciato la frangetta corta sugli occhi.
D’inverno capitava spesso di pomeriggio, di domenica, dopo le radiocronache del calcio.
Gli andavo incontro nella penombra azzurrina e fumosa della sala e d’estate il suo volto era illuminato dal chiaro delle stelle e punteggiato dalle ombre delle zanzare.
Più in là con gli anni i nostri incontri avvenivano a casa mia, la sera, quando nella cucina calda del profumo della minestra scodellata dalla nonna, facevo scricchiolare il legno della sedia scomoda e pensavo alle buone e solitarie poltrone di damasco rosso addormentate come principesse nel tinello.
Quando l’incontravo, accadeva una magia: mi intenerivo mentre lui raccontava di quando, giovane aveva fatto il soldato nella Grande Guerra e mi animavo all’improvviso al suono della sua risata grossa, morbida, carezzevole non appena ricordava con papà i giorni della loro giovinezza spaurita ed incerta nel settembre del 1943.
Aveva interrotto gli studi di medicina per un grave esaurimento nervoso, ma nella sua vita di mestieri li aveva provati proprio tutti: era stato straccivendolo nei mercati dei trovarobe, impiegato comunale, vigile urbano, benzinaio, giornalaio e vetturino per i turisti. Come diceva papà, aveva tentato la fortuna all’estero, ma era ritornato da noi ogni volta.
Sulle tavole polverose di qualche palcoscenico di provincia ci sono le sue impronte di ballerino e qualcuno giurerà di averlo visto svolazzare in mantello e turbante nei teatri di posa quando si era ficcato in mente di fare il cinema credendo di essere l’erede di Rodolfo Valentino.
Era segretamente innamorato di zia Laura, della sua fulgida bellezza fatta di occhi turchini, carne morbida e bianca, capelli neri: a primavera, per lei, un mazzo di margherite glielo ricordava.
Ma la zia gli preferì un modesto lattaio e lui si consacrò alla vocazione di eterno scapolo.
I tempi erano cambiati, si erano rovesciate le sorti della mia famiglia, perduto il lavoro di papà, cambiata più di una volta la casa, gli anni e le preoccupazioni avevano segnato gli occhi e le mani della mamma.
Di lui avevamo perso le tracce.
Erano stati anni di turbolenze giovanili, di domeniche con le strade vuote e silenziose, di spari che echeggiavano sinistri come le grondaie colpite dalle sassate di un monello.
Non c’era più la voglia di rintracciare il nostro amico, di rivedere il suo faccione morbido che ammiccava e sorrideva sornione.
Era invecchiato pure lui, come papà, anche se si ostinava ad impomatare di scuro e lucido i capelli ricciuti, corti sulla fronte.
Lo feci conoscere prima a mio marito, poi a mia figlia.
Ogni volta ci scappavano un sorriso e una lacrima perché lui era fatto così, ci faceva ridere e piangere insieme.
Ed una mattina di febbraio, quasi per caso, nell’accendere il televisore, mi sono un po’ meravigliata nel vederlo sfilare sotto ai miei occhi, ancora intorpiditi di sonno, nei panni più famosi e più festosi della sua carriera.
Dapprima ho pensato all’ennesimo reportage dedicato ai suoi successi, ma l’insistenza di quelle immagini che si susseguivano in bianco e nero, a colori, in bianco e nero, mi ha suggerito l’amara realtà.
E’ morto il nostro caro amico. Ad un tratto mi sono resa conto che non è scomparso solo un grande attore, ma se n’è andato un amico, quasi uno di famiglia, al quale eravamo abituati, che sentivamo vicino, che ci ha voluto bene.
Grazie Alberto, addio Alberto Sordi.
Mestre, 25 febbraio 2003

Un bellissimo ricordo al grande Alberto brava sorella