Le vostre storie,Racconti

Le domeniche di Giacomo (Parte Prima)

Tutto cominciò con un piatto di pasta coi piselli. Cucinato dalla signora Muttone, l’inquilina del piano di sotto, cuoca sopraffina a quanto s’intuiva da certi effluvi di soffritto e condimenti che filtravano dall’uscio o aleggiavano nel pianerottolo. Nell’incontrarla lungo le scale gli capitava di aspirare il penetrante odore di cucina che impregnava il tessuto del cappotto o la crocchia dei capelli. La signora Muttone gli sembrava una tonda e soffice focaccia pasquale: avrebbe affondato volentieri le dita nelle guance per saggiarne la morbidezza, assaggiato le labbra cremose, palpeggiato il collo, le braccia dall’opalescente color del burro e le rotonde sporgenze che s’indovinavano tenere e spugnose come meringhe. Si capisce che, da quel galantuomo che era, non avrebbe mai osato farlo, se non altro per non offendere l’innocenza della cara signora abruzzese e del suo consorte, ma la tentazione era forte. Aveva una predilezione per i piselli. Il verde chiaro gli ricordavano la campagna in cui era cresciuto e lo scoppiettio che facevano quando esplodevano nello sgusciare veloci dal baccello rotolando per tutta la cucina, mentre la nonna gli diceva:

-Svelto Giacomino, raccoglili che scappano dappertutto!

Nella stagione giusta li trovava alla bancarella del mercato rionale ed era maestro nello sgusciarli con un colpo di pollice. Spesso li comperava surgelati in grosse buste al supermercato, rosolati in padella con cipolla, sale, acqua e olio diventavano un piatto veloce da preparare e consumare. Quelli della signora Muttone furono speciali.

-Un giorno glieli faccio assaggiare come si usa dalle parti nostre!

Aveva mantenuto la promessa la cara signora. Un mezzogiorno di fine aprile gli bussò alla porta. Appena rientrato dalla solita passeggiatina in piazza s’accingeva ad aprire una scatoletta di tonno sott’olio, perché di mettersi ai fornelli non aveva voglia. La primavera era scoppiata all’improvviso insinuando fiacca nelle gambe e suggerendo lunghe pennichelle in poltrona. Ah, aprile dolce dormire! Ringraziò la signora e corse in cucina col piatto che scottava tra le dita. Un piatto di maccheroncini croccanti ed incrostati di formaggio grattugiato, punteggiati dal verde di una miriade di piselli lucenti e grossi frammisti a scagliette di salsiccetta piccante. Li divorò in un baleno. Morbidi, succulenti, dolci si scioglievano in bocca, ma gli parve che qualcosa andasse per traverso. Non ci fece caso, anzi innaffiò il tutto, piselli, pasta e salsiccia con una generosa bevuta di merlot. Gli prese la voglia di sonnecchiare e si sdraiò in poltrona, col giornale in mano. La lettura fu breve. Occhiali e giornale scivolarono giù, il pensiero volò alla faccia della signora Muttone, si confuse con le chiacchiere degli amici della piazza, sfumò nel bianco dello scialle della nonna che gli gridava di raccogliere i piselli, si stemperò nel pulviscolo polveroso che filtrava dalle tapparelle. Le stava fissando perché il sonno era sparito.

-Strano … credevo di aver dormito – borbottò sbirciando l’orologio. Era presto e la ficca nelle gambe sparita. Gli dispiacque un po’ abbandonare l’impronta della poltrona. Cosa avrebbe potuto combinare mentre tutto il caseggiato sembrava addormentato? Aguzzò le orecchie. Non sentì lo spignattare della signora Muttone. Anche le signorine Sbrilli, del piano di sopra, avevano abbassato il volume del televisore ed il terribile marmocchio dell’appartamento dirimpetto si era deciso a succhiarsi il pollice e quietare gli strilli.

-I signori condomini sono pregati di…-

Giacomo sogghignò ricordando che era merito suo l’affissione di quella targa in androne. Non se ne poteva più di rumori molesti, tacchi ed aspirapolvere, cani e bambini, pubblicità nelle cassette della posta, dell’invasione di piccioni in terrazza perché la vecchietta dell’ultimo piano faceva piovere le mollichelle di pane come una grandinata. Giacomo aveva scoperto il silenzio e gli piaceva. Era vissuto troppo a lungo a contato col frastuono della fabbrica, lo stridore della catena di montaggio, il rumore del traffico, i battibecchi e le discussioni coi compagni di lotta e di lavoro, le grida delle bisbocce con amici. Il silenzio mancava a Giacomo. Se ne accorse il portinaio che, a forza di lettere, accuse, recriminazioni, si decise a scrivere un regolamento condominiale da affiggere in androne nella bacheca di legno con le puntine dorate. Se ne resero conto gli inquilini che, a suon di invettive, proteste, colpi di scopa a soffitto, pavimenti, pareti, finirono col rispettare scrupolosamente il regolamento, aggiungendo norme non scritte, come quella di scivolare su pattine di feltro o di accompagnare dolcemente  lo scatto del portone quando si richiudeva. Ora però di silenzio ce n’era troppo nel palazzo affollato di vecchi in coppia o soli come lui, divenuti osservanti dei precetti regolamentari quasi si fosse trattato del catechismo. Le famiglie giovani erano quella dell’appartamento dirimpetto sul pianerottolo: madre, padre ed un birbante; l’altra era una coppia di sposini appollaiati all’ultimo piano, sotto alle soffitte. Gli unici che non rispettavano le regole e facevano venire a Giacomo certi nervi da tirare giù i Santi dal paradiso. Genitori incompetenti che non riuscivano a zittire il marmocchio prepotente e viziato, due innamorati che sembravano conoscere il mondo intero ed invitavano lassù, specie di sabato sera, orde di giovinastri con lunghi capelli, matasse di treccine, orecchini da tutte le parti. Erano in corso scaramucce e rappresaglie fra Giacomo e i giovani del condominio e fino a quel pomeriggio di fine aprile la guerra volgeva a favore del vecchio pensionato. Ma dal giorno della pasta coi piselli qualcosa cambiò. Giacomo non se lo spiegò con le solite risposte che si dava da solo o allo specchio. Non capiva bene perché gli mancassero gli strilli del demonietto. Erano diventati appuntamenti musicali per scandire le ore del giorno e non era vero che i bambini non gli piacessero. Anche lui era stato un bambino che aveva fatto ammattire i nonni quando lo cercavano nei campi, tra le pannocchie dove andava a nascondersi e fare le capriole. E Giuliano, con i suoi strilli e capricci e febbri improvvise, non gli era stato di meno, finché, a forza di rubare ore, giorni, mesi di sonno a sua madre, con i reiterati risvegli nel cuor della notte, non le aveva tolto il bene più prezioso che esista. Al sabato sera cominciò a sbirciare, senza fastidio, dallo spioncino l’andirivieni dei giovinastri dai lunghi capelli. Ce n’era uno dalle basette folte e l’impermeabile a scacchi bianchi e neri che gli ricordava un commilitone di caserma che tutti deridevano per l’andatura sbilenca e prendevano a gavettoni d’acqua. Le cosce della ragazza in minigonna con le matasse di treccine sulla testa gli balenavano sotto al naso ad ogni saltello di gradino ed avevano la pastosità di marron glacé. Era una di quelle ragazze che sarebbero piaciute a Giuliano amante di esotismo. Non riuscì ad appisolarsi in poltrona e dovette rinunciare alla sua cara impronta. Si sentiva irrequieto, incapace di star fermo, con le mani in mano e comunque c’era sempre qualcosa che non gli andava né su né giù. Il sonno della notte cominciò a guastarsi non perché dormisse poco, a salti e soprassalti, quanto per il fatto che, non sognando più da anni, ricominciò a evocare colori, immagini, suoni che credeva perduti o sconosciuti. Al posto della fiacca nelle gambe avvertì un pizzicorino al basso ventre. Gli spuntarono peli lunghi e morbidi in zone ormai dimenticate. Una mattina, mentre raccontava il variopinto sogno allo specchio, si accorse che la calvizie non era più tale: ciuffettini di capelli scuri stavano germogliando su fronte e tempie, simili a chicchi di miglio. Se ne rallegrò e decise di non calzare il cappello per nascondere gli odiati cernecchi. Gli amici della piazza gli dissero che sembrava un giovanotto, qualcuno giunse a evocare il famoso patto col diavolo. A Giacomo sembrò che gli inquilini del caseggiato lo guardassero in modo diverso: i vecchi con stizzita disapprovazione, i giovani con divertita complicità. E Giacomo ricominciò a guardare le donne. Come dieci anni prima o forse erano passati pochi anni dall’ultima volta? Non ricordava bene il momento in cui le meravigliose creature avevano cessato di essere oggetto di desiderio, né quello in cui egli si era rassegnato a non essere oggetto del loro desiderio. Si confondevano le cose, tutto però risaliva allo scoccare del pensionamento, in maniera lenta, sorniona. Giacomo non si considerava tipo da avventure mercenarie, non lo era stato neanche da giovane. Era tardi per trovare una donna che gli facesse perdere la testa una seconda volta. La prima era ormai lontana nel tempo e nello spazio: irripetibile, ineguagliabile, irraggiungibile. Di lei rimanevano uno straccetto di foto sbiadita nel portafoglio che non si decideva a buttare e naturalmente Giuliano. Perciò s’era messo l’animo in pace ed in pace erano andati pure i sensi. Con gli amici si divertiva ancora a commentare soppesando le rotondità e le sporgenze, più o meno scoperte, di chi gli passava accanto. Si rammaricava pensando di assomigliare a quei vecchi satiri che popolano fiabe, giardini e musei. Suddivideva la flora femminile in due gruppi: quelle che gli ricordavano il burro, il miele e la pana e le altre che evocavano grissini, biscotti secchi e panbiscotto. Colpa dell’infanzia e della nonna che cucinava dolci e pasta coi piselli. Colpa dello scialle bianco che l’avvolgeva con la consistenza e la leggerezza di una nuvola o dello zucchero filato. La madre, magra, tutta spigoli e punte, coi capelli lisci come spaghetti, lo graffiava nell’abbraccio, come le croste del panbiscotto graffiano la gola e fanno tossire. E poi scompariva per giorni, mesi, anni lasciando un vuoto di ruvidezza che graffiava i sogni e i pensieri. Dimenticò il giorno in cui non era più tornata perché il tempo aveva confuso giorni, mesi ed anni. S’innamorò di una ragazza dalla pelle di latte, i capelli di miele, il seno di burro alla vaniglia. Si gustarono deliziandosi fino allo spasimo. Dopo di lei, le altre, ed in verità erano state pochissime, non avevano avuto il medesimo sapore. L’ultima, Gabriella, burrosa al punto giusto, i capelli biondissimi anche se non naturali, era frivola, troppo giovane e piena di pretese. A pochi mesi dal pensionamento Giacomo troncò la relazione con sollievo di entrambi. Da qualche settimana lo stuzzicava il pensiero della badante delle signorine Sbrilli, l’ultima accudiente piovuta da chissà quale villaggio della steppa russa, per le due vecchie sorelle che vivevano da sole e non erano in grado di badare a se stesse. Si erano incrociati un paio di volte lungo le scale mentre risaliva carica di sporte della spesa. Le signorine Sbrilli mangiavano molto nonostante fossero rinsecchite come gallette. S’era offerto di aiutarla e lei lo aveva guardato con gratitudine. Ad occhio e croce navigava sulla quarantina, aveva pelle chiara e lentigginosa, capelli ramati. Parlava in italiano corretto benché velato da accenti e melodie slave. I modi erano garbati, il sorriso ineffabile di chi non si lascia toccare da fatiche ed avversità. Cominciò così la storia fra Giacomo e Larissa, sul finir dell’estate: dapprima grazie alle sporte della spesa, poi con il caffè offerto a casa di Giacomo ogni domenica pomeriggio, giorno di libertà di Larissa. Eppure c’era sempre qualcosa che non gli andava giù. Avvertiva che il formicolio al basso ventre s’accentuava quando Larissa gli raccontava le sue vicissitudini con le Sbrilli o quando accennava alla lontana steppa russa. Nostalgia di boschi, isbe sperdute nella campagna, cristalli di ghiaccio, distese di grano e luppolo, campanelli di slitte sulla neve, morbidi colbacchi di pelo. Giacomo leggeva tutto questo nei suoi occhi, nei gesti, nelle parole. La vedeva scivolare con le pattine di feltro sui pavimenti brillanti di cera, fra ninnoli e baroccherie di casa Sbrilli. L’immaginava mentre accudiva le incontentabili donne, una più acida dell’altra, dalla pelle verde ed umida di rana, sempre vestite a lutto come se avessero perduto qualcuno di recente.

“Forse la verginità! – pensava Giacomo con malumore. La gola avvertiva tuttavia come una bolla di vuoto nel respiro ed improvvisamente il formicolio lo frugava dall’interno, come se lunghe dita lo accarezzassero procurandogli sollievo e sgomento.

“Cosa mi succede? Mi sto ammalando?

…segue Parte Seconda !

 

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Loredana Facchinelli

Loredana Facchinelli, 1955, classe di ferro e nuvole, felice nonna di Niccolò, è una maestra in pensione che ama scrivere fin da quando era bambina. Si definisce così: “Mi sento come una coppa spumeggiante di bollicine …a volte è champagne, altre volte solo bicarbonato di sodio”!

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Fiorella

In attesa della seconda parte

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