Aracne (Parte Seconda)
La bellezza e la perfezione di Egle mi costringevano a macchiare la sua immacolata biancheria, ad incrinare un oggetto che le appartenesse, il ventaglio o la penna, ad infilare fra le lenzuola cavallette e lucertole stecchite. Dovevo trovare un punto di debolezza in lei, un segno di sporcizia nel suo candore, una linea storta, un colore stonato. Lentamente Egle diventò intrepida ed intraprendente. Mi sfidò a viso aperto. Non lasciò nulla di intentato. Neppure quando Augusto si accorse di me scialba e brutta diciottenne al ballo di Capodanno. Non ricordo di quale anno. Rammento solo il suo sorriso e la mia speranza di come avremmo potuto essere felici assieme ed il coltellino che incise le nostre iniziali sulla magnolia. Durò poco l’idillio. La guerra ci separò e quando Augusto ritornò dal fronte andò dritto da nostro padre a chiedere la mano di Egle. Si erano scritti valanghe di lettere durante gli anni della guerra. Egle le nascondeva con la complicità di mamma. A me erano arrivate poche cartoline che sventolavo con trionfo sotto ai loro occhi. Che stupida babbea al loro cospetto! Alle mie spalle si ordiva il più infame furto d’amore che si potesse immaginare. Egle mi rubò l’unico uomo che si accorse di me, lo sposò e visse con lui fino a dieci anni fa. Ma io so che non è stato un matrimonio felice. Augusto l’ha tradita ed umiliata. La sua carriera di avvocato s’è inceppata in un processo finito male, hanno sperperato l’eredità e non sono arrivati figli. Alla fine lui s’è ammalato di cancro e l’ha lasciata sola, in mezzo alla strada. Egle è piena di acciacchi e rimpianti. Da qualche anno soffre di diabete e non dovrebbe esagerare coi dolciumi da quella golosa che è. Anch’io sento il peso degli anni, ma è a causa sua se ho deciso di rivolgermi ad un’agenzia di reclutamento di badanti. In molte hanno bussato alla nostra porta, un breve esame al quale nulla sfugge al mio occhio attento le faceva sparire. A Egle piacevano tutte. Chi troppo ruvida e sbrigativa, chi inesperta ed incomprensibile, sono tutte donne e ragazze che provengono dall’Europa dell’est, facce larghe, zigomi alti, occhi cerulei, accento melodioso.
Larissa si è presentata un sabato mattina. Nello sguardo ho colto il lampo di seduzione di Norma, l’ultima governante – allora si chiamavano così – che girò per casa dopo che papà era morto e prima della scomparsa di mamma. Larissa non ne è consapevole, ha l’aria di una colomba che ha smarrito la rotta in volo per tornare a casa. Mi sarà difficile ottenere da lei la complicità che mi legò a Norma. Come lei è efficiente, precisa, sbrigativa. Al contempo svela una dolcezza e un candore disarmanti. Egle vi ha fatto subito ricorso per sentirsi protetta e coccolata. La corteggia con sorrisi, la chiama petulantemente. Alla mattina e alla sera si fa pettinare fino allo sfinimento, si farebbe perfino imboccare se non glielo impedissi. Larissa ubbidisce con l’ineffabilità di chi non si lascia vincere da fatiche ed avversità. Noli me tangere, se sapesse il latino! Eppure si nasconde in lei un grumo inesplicabile. L’ho spiata mentre si cambia la biancheria. Indugia son le dita sulla pelle, ad occhi chiusi, ha un corpo statuario, alabastrino che i vestiti larghi infagottano e mortificano. Quando dorme ha la fronte aggrottata come chi è alle prese con un cruccio da risolvere. Mentre crede che nessuno la osservi, saettano dagli occhi di ghiaccio lampi e luci di tempesta e la lingua accarezza le labbra. E’ lei che mi corteggia, mi blandisce perché ha capito che chi tiene il bastone del comando sono io. Ma non so se posso fidarmi di lei, come feci con Norma. E’ un rischio che mi fa ancora tremare i polsi, battere il cuore, scorrere l’adrenalina. Sarebbe la soluzione al mio presente, come è accaduto tanti anni fa, quando il mio incubo era la mamma. Lo sguardo perso nel vuoto, ammutolita nella poltrona a rotelle, mamma non si decideva a morire. La compiangevo perché sapevo quanto dovesse costarle la malattia che l’aveva ridotta ad una larva, lei, donna che fu bella, attiva, intraprendente. Da bambina l’adoravo perché sapeva sempre qual era la cosa migliore da farsi, l’ammiravo perché ogni abito su di lei diventava importante, l’invidiavo perché nascevo dalla sua bellezza. La odiai perché si era resa complice di Egle. Capii che con l’aiuto di Norma avrei fatto svanire l’incubo che ci avvelenava la vita. Nessuno se ne accorse. Mamma chiuse gli occhi per sempre una dolce mattina di settembre, ringraziandomi del mio gesto ed io ricominciai a vivere. Peccato che Norma, nell’arco di alcuni mesi, cominciasse a manifestare segni di insofferenza che in breve determinarono il suo allontanamento da me. Divenne intrattabile, ombrosa. Il giorno in cui se ne andò non mi degnò di uno sguardo. Non ne seppi più nulla, ma talvolta mi visita nel sonno.
La complicità di Larissa non sarà necessaria questa volta, perché la trappola in cui Egle cadrà, è più semplice da costruire. Basterà insistere sulla golosità, battere il tasto di cioccolatini, praline e cremini di cui va matta, malgrado le sgridate del medico che le controlla i valori della glicemia. A Larissa ordino di comprare dolciumi e di nasconderli, ben sapendo che Egle li scova come se giocasse alla caccia al tesoro. Fra poco sarà Natale. Larissa mi ha chiesto due giorni di vacanza. Credo che abbia uno spasimante. Ogni domenica pomeriggio si mette in ghingheri ed esce puntuale. Non credo vada lontano, quando rientra ha le gote soffuse di piacevole rossore. Malgrado le reticenze di Egle, ho acconsentito, dal momento che una nipote di mia sorella verrà a passare il Natale con noi. Larissa è felice, mi ha persino baciato sulla guancia e di notte Norma è venuta a trovarmi nel sonno. L’ho spedita a comprare panettoni, mostarda, torroni in quantità tal da soddisfare un reggimento. Lei non se ne chiede la ragione. Meglio così. E’ tutta presa dall’orgasmo dei preparativi per la partenza. La vigilia, di buon mattino, se n’è andata e al suo posto è apparsa la nipote di Egle. Jone vive a Torino ed non avevo dubbi che ci portasse in dono amaretti, baci di dama, cuneesi al rhum, nocciolini, gianduiotti e tirolin. Natale è sempre lo stesso da tanti anni. L’abete non ci manca, anche se non ha le proporzioni di quello che addobbavamo nel salone di villa dei Tigli. E’ di plastica. I ninnoli ci sono tutti, li ho conservati gelosamente: sono piccoli miracoli di vetro soffiato, bolle d’aria iridescenti, capolavori di cesello come non ne esistono più. Ce ne sono due che ricordano le nostre date di nascita. Il mio è un cavalluccio a dondolo di metallo dorato. Quello di Egle è una pignetta un po’ scolorita e senza brillantini. La tovaglia della festa apparteneva al corredo di mamma, porta le iniziali ricamate nel lino di fiandra, le posate, lucidate a dovere, sono d’argento e i piatti di porcellana tedesca miracolosamente scampati ai vari traslochi. Il pranzo prevede le pietanze tradizionali la cui preparazione ci ha lasciate estenuate. Jone è bravissima nel cucinare il tacchino dalla crosta lucente, covandolo a fuoco lento per ore e ore. Si è intestardita a preparare il bounet dicendo che a Torino ogni pranzo non può che concludersi col dolce a base di amaretti, uova, cacao, panna e caramello. L’ho accontentata.
Il giorno della festa Jone si è commossa perché l’insieme le ricorda le feste di Natale trascorse con zia Egle e zio Augusto che, per un certo periodo, le fecero da genitori. Jone rimase orfana del padre in tenera età e la sorella di Augusto era una donna inetta come poche. Anche Egle non ha smesso di piangere per tutto il giorno, interrompendosi di fronte ai regali e alle portate del pranzo. Si è rimpinzata di cuneesi al rhum, bocconi di torrone, fette di panettone. Alla fine si è addormentata di sasso nella poltrona. Non è successo ciò che speravo, ma credo che se continuerà così, prima o poi, la sua glicemia schizzerà alle stelle. Non mi resta che aspettare con fiducia e pazienza. Ed io ne ho molta. Come un ragno. Mi sono sempre piaciuti i ragni. Li osservavo zampettare lungo i muri, arrampicarsi sulle tende, pendere dai soffitti. Le ragnatele hanno qualcosa di prezioso specialmente quelle che la rugiada imperlava di luce nel giardino, fra i rami delle magnolie. Egle non li poteva soffrire, la mandavano in panico. Io insistevo ad infilarglieli tra i capelli. Ho sentito parlare di Aracne, la fanciulla così brava nel tessere e ricamare da suscitare la collera della dea Atena, la quale la trasformò in ragno, per punirla della sua superbia. Non sono Aracne, benché sappia ricamare, cucire e tessere sin dall’epoca in cui frequentavo il collegio. Non sono superba e nessuna dea mi punirà, perché io mi sento un ragno. Mi sono cresciuti i peli, ho otto zampe, vedo tutto, sono sgraziata e brutta. Dal giorno in cui Larissa ci ha abbandonate per tornarsene dal marito nella steppa russa, io sbavo ragnatele alacremente. Ricoprono mobili, tappeti, tende e quadri. Non si vedono ad occhio nudo, tanto impalpabili e leggere sono. S’intrecciano avviluppandoci in un abbraccio che nessun colpo di scopa o di piumino può distruggere. Mi piace tessere di notte, mentre Egle sfinita da lacrime e dolci s’addormenta. Sono un ragno che tesse la sua tela invisibile, impalpabile, che intrappolerà Egle e la fagociterà, mosca petulante ed inconsapevole, che mi ronza intorno da più di dieci anni. Si dissolverà l’orribile incubo in bianco e nero, il film dell’orrore che sto vivendo da una vita ed io ricomincerò a vivere.
Nota: Aracne, fanciulla della Lidia, era abilissima nel tessere e filare, tanto che si raccontava che avesse imparato l’arte direttamente dalla dea Atena, mentre lei affermava che fosse la dea ad aver imparato da lei. Da qui nacque la sfida ad Atena. Come tema della tessitura Aracne scelse l’amore degli dei, il suo lavoro risultò così perfetto che Atena si adirò, distrusse la tela e colpì Aracne con la spola. Disperata la fanciulla s’impiccò, ma Atena la trasformò in un ragno, costringendola a filare e tessere per sempre dalla bocca, punita per la superbia e l’arroganza dimostrate nell’aver osato sfidare la dea.
