La signora Muttone- Parte Seconda
La proprietaria dei vasi, la moglie del portinaio, agguantò la ragazzina al ritorno da scuola e la sottopose ad un terzo grado. La ragazzina alla fine confessò piangendo la sua colpa. Il portinaio la bollò come ladra inveterata.
-Oggi un fiore, domani che altro? Dove andremo a finire!
Rosa andò subito a consolare la piccola con una fetta di ciambella e s’affrettò a far sapere al portinaio che non si trattano così i bambini, che cogliere un fiore è un gesto di buon cuore e non un furto, che la tolleranza dei grandi deve essere infinita. Sapeva che il portinaio avrebbe agito da cassa di risonanza in tutto il palazzo. E così fu. Si cominciò a guardare la signora Muttone in modo ostile. Diventò per la seconda volta una meridionale che difendeva gli extracomunitari e perciò considerata alla stregua degli stessi. Chi invece ne apprezzò il comportamento furono i due giovanissimi sposini dell’ultimo piano che, un giorno, le manifestarono solidarietà bussando alla porta.
-Volevamo dirle che lei è proprio da ammirare, così coraggiosa con questi quattro leghisti di merda!
-Non si dicono le parolacce! – li ammonì sorridendo ed offrendo loro un piatto di biscotti appena sfornati. Le erano simpatici quei due: lui sembrava un bambino cresciuto da poco, lei con le matasse di treccine sulla testa una bambola. Al sabato sera arrivavano a frotte i loro amici e salivano allegri le scale verso l’appartamentino, sotto alle soffitte, da dove provenivano voci, rumore e musica. Li spiava socchiudendo l’uscio oppure con la scusa di portar giù la spazzatura o dare un goccio d’acqua alle piante sul pianerottolo. Lei ed il maresciallo avevano avuto pochi amici. Qualche coppia di sposi, per lo più meridionali, colleghi d’ufficio di Muttone, provvisti di considerevole prole. Ogni incontro si risolveva in grandi abbuffate ed intrattenimento per i piccoli; mai una barzelletta piccante – c’erano orecchie benedette! -, mai un’improvvisazione musicale – si disturba per carità!
Li conosceva tutti: da quello con l’impermeabile a scacchi bianchi e neri che camminava di traverso come piegato da un colpo di vento, alla ragazza di colore con le minigonne più ridotte che avesse visto; fantasticava immaginandoli mentre si baciavano e si toccavano. Arrestava l’immagine perché quello che accadeva dopo la faceva arrossire e comunque era proprio come spiare nella camera da letto dei propri figli. Il pensiero non violava lo spazio sacro della procreazione e pazienza! se in tanti anni di matrimonio non l’avesse fatto in posti diversi e se la veemenza e la prestanza del marito non le avessero procurato piacere ogni volta. Erano colorati, chiassosi e giovani. Rosa sentiva di non essere mai stata giovane, non ne aveva avuto il tempo. Capiva di non aver vissuto fino in fondo, s’era lasciata guidare affidandosi ad altri che se ne erano impadroniti.
“Sono idee da vecchia rimbambita – si disse – adesso che i figli non ci sono più, ho tempo per pensare a queste sciocchezze. . .
Le chiamava così le idee che frullavano in testa facendole intravedere la possibilità che nella vita ci fosse altro da provare e scoprire. Provò a confidarsi con il marito: gli chiese di prendere la patente.
-Ma sei impazzita, Rosa, alla tua età! – fu la risposta. Le venne in aiuto Nicola non appena lo seppe. Il figlio scavezzacollo la portò per le strade di campagna, a bordo di una malconcia 500, fu paziente istruttore, la incoraggiò nei momenti di sconforto davanti ai mugugni del maresciallo. A Rosa sembrò la cosa più semplice e naturale del mondo impugnare il volante e ingranare le marce come rigovernare in cucina o cambiare i pannolini. Il giorno in cui conseguì la patente festeggiò preparando la cicerchiata. Fu poi la volta della dieta. L’ago della bilancia e lo specchio erano suoi nemici: colpa di intingoli e manicaretti. Ne parlò un giorno con la ragazza dell’ultimo piano che le regalò un libro di ricette vegetariane. Rosa scoprì gli scaffali dei cibi macrobiotici e biologici. Al maresciallo preparava le solite pietanze succulente, a lei riservava, con la scusa di non sentirsi bene, piatti scarsi, soprattutto vegetariani, per il resto del caseggiato cucinava biscotti e dolci come sempre. Il risultato fu che, in capo a sei mesi, lo specchio migliorò e l’ago della bilancia si spostò.La ragazza dell’ultimo piano le consigliò un nuovo taglio di capelli. La crocchia non andava più di moda e i capelli di Rosa erano ancora corposi e fluenti. Quando il maresciallo vide le belle chiome sacrificate fu un momento drammatico. La rimproverò perché aveva agito di testa sua, senza consultare chi apprezzava la capigliatura lunga, – da femmina ammodo-.
-T’ho conosciuta con le trecce – tuonò – e con le trecce dovevi restare Rosa!
Lei tenne duro ricacciando indietro le lacrime che l’avrebbero tradita perché le ciocche, lasciate sul pavimento del parrucchiere, le avevano procurato una stretta al cuore. Sentiva le mani di nonna che affondavano il pettine ed intrecciavano i capelli, rivedeva il maresciallo estasiato quando se li scioglieva inondando il cuscino, sorrideva al ricordo delle manine di Nicola o di Angelina che si divertivano a tirarle come corde di campane. Tenne duro perché i figli che la videro l’apprezzarono. Solamente Cosimo, avvertito dal padre via telefono, la redarguì senza averla vista, dato che era gendarme a Firenze ed assomigliava sputato al maresciallo.
-Tanto ricresceranno! – si difese parlando al telefono con Giulia e Giovanni, i figli più lontani. Nei mesi successivi all’incursione nel negozio del parrucchiere Rosa non abbandonò la cucina e preparò tanti di quei manicaretti, di cui il maresciallo andava matto, che il caseggiato si riempì di effluvi da pasticceria e rosticceria come mai era successo. Per espiazione.
Poi successe un fatto terribile. La bamboletta dalle matassine di trecce fu ricoverata nottetempo in ospedale. Lo sposino bussò alla porta dei Muttone.
-Sono disperato! Brigitte sta male e non c’è nessuno che l’assista, non mi fanno entrare. . .
Brigitte era relegata nel reparto di terapia intensiva. Dietro alle porte ermeticamente chiuse il silenzio e fuori nel corridoio la paura, le lacrime del ragazzo che sembrava un bambino. La signora Muttone si sentì madre per l’ennesima volta. Si commosse ed ascoltò.
-Brigitte me l’aveva promesso di non ricascarci – pianse il giovane – non riesco a capire. . . l’altra sera era un po’ troppo euforica, su di giri. Poi ho trovato il tubetto vuoto ed allora ho capito.
Rosa venne a sapere che la ragazza era di origine francese, con una storia balorda alle spalle ed un passato da dimenticare.
-Non ne vogliono di sapere di me e Brigitte – continuò il giovane – noi ci arrabattiamo alla meno peggio, si lavoricchia di qua e di là … ma è dura!
I genitori di lui avevano inflitto l’ostracismo all’unione della giovane coppia. Non si fecero vedere in ospedale. Quando Brigitte fu dimessa sembrava un uccellino spaurito con le ali spezzate. Rosa Muttone cominciò a prendersi cura di lei. La costrinse a nutrirsi di carne benché fosse vegetariana e vagamente anoressica.
-Devi mettere su qualche chilo, ragazza mia, altrimenti ti ammali sul serio!
Brigitte era malinconica, svogliata. Le toccò lavarle i capelli, rassettare il minuscolo appartamento sotto alle soffitte, impedire che gli amici del sabato sera lo riempissero di fumo e canzoni.
-Quando sarai di nuovo in forma, allora riprenderai la tua vita. Ora devi pensare a te e alla creatura che tieni in grembo …
Brigitte era incinta da poche settimane e non lo sapeva.
-Nascerà un altro disgraziato come me – si lamentò un giorno rifiutando il piatto di zuppa calda della signora Muttone – non lo voglio questo bambino!
Rosa pensò agli otto figli, ai dieci nipoti e le venne da sorridere perché anche lei, in più di un’occasione, aveva nutrito in sé quel pensiero, flagellandosi e vergognandosi di averlo partorito. Soprattutto dopo la nascita del quartogenito e l’arrivo del quinto nipote. Una vita trascorsa a cullare, accudire, crescere figli come ad impastare lasagne e focacce, soffriggere lardo e cipolla, arrostire e braciare. Ma cosa c’era di più naturale e divino nella vita che creare la vita? Dentro di lei, nel suo grembo, germogliava il seme dal quale nasceva il ramoscello della sua pianta: una forza che sentiva di possedere al di là delle storie che le monache raccontavano sulla volontà celeste del disegno divino.
-Siamo animali destinati a perpetuare la specie, che ci piaccia o meno! – rispose a Brigitte – tu ne hai la forza, devi farlo ad ogni costo questo bambino, devi sfidare il destino … creare una creatura diversa da quella che sei stata tu …
Brigitte l’ascoltò. Dopo nove mesi nel caseggiato risuonarono i vagiti di un maschietto, nato sotto peso ma con due polmoni da far invidia ad un tenore. Anche Caterina li aveva resi nonni per la decima volta e si profilava all’orizzonte la maternità della compagna di Nicola.
-Siamo destinati ad essere una grande famiglia! – esclamò il maresciallo convinto che all’origine di tutto ci fosse il proprio merito fatto di prestanza e veemenza. Rosa sorrise e pensò che si sbagliava. Le donne hanno il dono di creare qualcosa, mentre gli uomini no. Essi che si limitano a fornire qualche milione di spermatozoi che si distruggono nella fretta di arrivare a destinazione consentendo ad uno solo di vincere, cadono nell’inganno della grande trappola della creazione. Ma non lo contraddisse e quella sera gli cucinò un arrosto sovrano.
2008