Nell’ombra
«Dai sbrigati! Non vorrai arrivare tardi il tuo primo giorno, vero?» la voce mi distoglie dalla lettura, guardo l’orologio è tardi: devo ancora vestirmi.
Il convegno è alle diciassette e, alle sedici e cinquanta cinque, sono all’ingresso col pass al collo; la mia collega mi aspetta da cinque minuti. Saliamo insieme e ci accomodiamo a metà platea, siamo entrambe al primo approccio, la prima volta con la divisa addosso. Il nostro compito oggi è facile: fare pubblico, ascoltare e imparare.
«… e abbiamo agito di conseguenza, le esperienze maturate oggi le dobbiamo agli errori commessi negli anni addietro e agli ostacoli incontrati durante le tante emergenze...» l’oratrice si interrompe un momento, osserva la platea attenta. Affronta un argomento difficile da esporre e vorrebbe che il pubblico la seguisse consapevolmente. Qualcuno entra in ritardo, si scusa e si siede; molti si girano a guardarlo. La donna al microfono abbassa gli occhi sui suoi appunti e riprende con la stessa enfasi.
Ci racconta un po’ delle sue esperienze, un trascorso da persona qualificata a gestire le emergenze dirigendo il complesso di operatori e volontari cercando di fare il meglio per tutti: vittime e soccorritori. Questo suo bagaglio d’esperienza le dà il diritto di spiegare a noi quale sia il vero significato della parola entrata ultimamente nel lessico quotidiano: resilienza.
«…ed è quindi importante capire le esigenze di chi affronta una tragedia come un terremoto: bisogna tener presente che le vittime non sono solo quelle rimaste sotto le macerie, ma i sopravvissuti: i loro occhi ci guardano, le loro orecchie ci ascoltano e noi abbiamo il dovere di rispettare il loro dolore. Dobbiamo quindi formare le persone che si occuperanno di loro perché non li feriscano in nessun modo perché siano in grado di…»
Mi sento inadeguata: non credo di essere in grado di assolvere a compiti come quelli che sta elencando, non ho mai pensato che correre in aiuto, durante le catastrofi, significasse questo.
«...avremo così a disposizione una schiera di persone utili, sensibili e adeguatamente capaci. Ricordate sempre che un volontario formato è come un mattone in un muro: se è ben connesso agli altri, nessuno lo abbatterà. Un volontario spinto solo dalla voglia di aiutare, senza un bagaglio di formazione, non andrà a formare un solido muro, ma costituirà una parte di quelle macerie che ostacolano le operazioni anche se a muoverlo è una ammirevole solidarietà» conclude. I presenti applaudono.
Nella sala del piccolo rinfresco alcuni giornalisti intervistano i partecipanti.
«Quanti anni sono che fa il volontario e cosa l’ha spinta a diventarlo?» sono le due domande della giornalista.
Difficile rispondere con poche parole a domande così complesse.
Non è che prima non ne sentissi il bisogno, non so perché; essere cresciuta in città diverse non mi ha dato la possibilità di aggregazione con i coetanei che si affacciavano al volontariato o semplicemente perché lavoro e famiglia assorbivano tutto il mio tempo e perché ritenevo di far la mia parte di vita sociale donando regolarmente il sangue.
Il clima familiare che si è instaurato tra noi, componenti di una squadra di volontari, favorisce la soddisfazione negli interventi. Mi sento decisa a continuare il cammino, sono convinta che riusciròa diventare un volontario informato, formato, capace di fare la differenza in caso di emergenza, basterà che mi affidi a chi potrà plasmarmi come sanno.
Partecipo così, insieme alla mia squadra, a manifestazioni pubbliche dove è richiesto un impegno minimo: insegnamento perfetto per rapportarmi con gentilezza alle persone, a non dire più del dovuto e a rispettare il pensiero altrui. Imparo che non sempre ciò che a me pare ovvio lo è per tutti, capisco che non sono indispensabile ma utile e che, per ora, il mio compito è quello di essere gli occhi di altri. Devo osservare e, in caso di bisogno, chiamare chi ha la capacità di intervenire e risolvere.
Lentamente, senza accorgermene, imparo quale è il mio posto. Partecipo a corsi di formazione sull’uso corretto dei Dispositivi Prevenzione Infortuni (DPI), all’uso della radio, mi insegnano come si monta una tenda, la differenza tra accampamenti ministeriali disponibili. Imparo come si costruisce un campo d’emergenza e come si gestisce, studio i protocolli delle inondazioni, prendo dimestichezza con la pompa idraulica. Mi avvertono su quali sono i pericoli che corre un volontario e le Leggi che lo proteggono. Assimilo il modo migliore di rispondere al telefono durante una catastrofe, ciò che è meglio dire per tranquillizzare la vittima e capire di cosa abbia bisognoimmediatamente. Affianco gli uomini della Protezione Civile per piccoli interventi di loro competenza, come il controllo della numerazione interna degli appartamenti e la distribuzione di dépliant sui comportamenti da tenere in caso di calamità come il ghiaccio, il vento e il terremoto. Supero con impegno il corso istituito dai piloti di elicotteri, imparo i gesti convenzionali per l’atterraggio sicuro, come segnalare, da terra, dove è necessario il loro intervento; scopro come il pilota non abbia strumenti a bordo sufficienti per un volo protetto, ha bisogno di indicazioni da terraper scendere. In caso d’emergenza atterrare in sicurezza è fondamentale e anche i bravissimi piloti hanno bisogno dei nostri occhi.
Mi sento orgogliosa di indossare questa divisa, di appartenere alla squadra.
L’alfabeto fonetico internazionale di spelling mi svela che “enne come Napoli” si traduce in “November”. Apprendo come ci si muove nei boschi e come si cercano le persone disperse. Poi mi presto alle esercitazioni che sono studiate per insegnare la pratica, rendendomi conto che ripetere più volte il solito protocollo d’azione fa esperienza e, al momento del bisogno, sarà naturale comportarmi adeguatamente.
Quindi inizia la mia avventura di volontaria e, nella mia divisa gialla-arancio, mi esercito a vuotare un sottopassaggio allagato, a evacuare un’ala di ospedale colpito da incendio, a tranquillizzare i passeggeri di un aereo dopo un atterraggio movimentato e più imparo e più spero che non succedano mai eventi di questa entità, perché quello che mi insegnano si riferisce allo scenario peggiore che si possa verificare.
Il tempo scorre, gli anni passano e ora anche io posso dire di essere una volontaria formata e informata. So che in caso di emergenza mi sarà chiesto se voglio “dare una mano” ad assistere chi aiuta, so che avrò la facoltà di decidere. Questo aspetto mi piace di più, so di non essere in grado di spostare detriti in caso di crolli. Ogni piccola maceria può, se spostata male, causare danni enormi, ma posso portare un piatto di minestra al Vigile del Fuoco coperto di polvere e stanco perché ha bisogno di energia, posso montare una tenda e preparare la branda perché dopo ore di emergenza anche gli eroi hanno bisogno di riposarsi. Il sangue freddo per accorrere e soccorrere è il primo requisito richiesto, il mantenere la calma è il secondo. Spesso durante il “periodo di pace” mi chiedo se sarò in grado di farlo e ancora mi attacco alla speranza che non succeda mai.
Nel frattempo imparo a riconoscere l’associazione dal colore della divisa e mi sento in famiglia, la solidarietà e il senso civico è forte in tutti i volontari.
Ma come spesso accade “ciò che si spera difficilmente si avvera”, lo recita anche un vecchio detto!
L’emergenza è arrivata per tutti e ci ha trovato attoniti, stupiti, ma preparati. La forza della squadra è emersa solidale ed energica e anche se non dobbiamo montare un campo per fornire un riparo a sfollati, siamo in prima linea, affiancando chi sa cosa fare e si impegna al meglio in breve tempo. Apriamo scatole, imbustiamo, prepariamo per la distribuzione e, in breve tempo, consegniamo alla popolazione la prima difesa contro il nemico subdolo e invisibile che ci ha attaccato: le mascherine. Arriviamo ovunque; dove c’è una persona che non può uscire, una famiglia che non può fare la spesa, pronti ad ascoltare chi ha solo bisogno di parlare.
La collettività si organizza, trova il modo di proteggersi, dispone luoghi dedicati dove riunire e assistere i malati per non appesantire gli ospedali. Ed ecco ripartire l’esercito dei volontari. Chi si occupa del settore sanitario è più esposto di noi, il rischio è alto, ma non si tirano indietro. Sono sempre in prima linea, il loro impegno è importante, hanno quello che serve: sangue freddo e calma. Noi della logistica, ci occupiamo del piccolo, del resto, di ciò che non salta agli occhi subito. Per questo non ci notano, non parlano di noi: agiamo nell’ombra. Grazie a noi, al nostro lavoro, le ricette di chi è in quarantena diventano medicine, le necessità di spese diventano borse con il cibo e la solitudine è meno pesante.
Il nostro compenso? È quel senso di appagamento che la sera si mescola col mal di schiena, con i piedi gonfi e quel sorriso che fa capolino sulle nostre labbra quando, a casa, ricordiamo quel “Grazie, che Dio vi benedica” che abbiamo sentito, sussurrato al di là della porta chiusa.
Potrei essere Roberta, Laura o Marco potrei avere i capelli castani o bianchi, essere un uomo o una donna, potrei essere il vicino di casa o la signora in fila alla posta, non ha importanza, quando indosso la divisa dai colori catarifrangenti sono una persona senza volto, una pedina di una squadra in grado di portare aiuto in caso di necessità ed è quello che sognavo da piccola: avere un posto nella società che mi permettesse di raccogliere sorrisi.