L’ospite di Ferragosto (Parte Seconda)
-Non avevo dubbi! – borbottò Ghitta allontanandosi. La chiesa non era che a due isolati. Fece in tempo ad occupare uno degli ultimi posti nei banchi in fondo. Aveva ragione il portinaio. Non aveva mai visto tanta gente a sant’Andrea il giorno di Ferragosto. Incrociò alcuni conoscenti, ne salutò altri, fece due chiacchiere e scambiò gli auguri. La pasticceria Menconi era affollata. Alla fine uscì con un vassoietto con sei pastine: cinque sontuose creazioni di panna, meringa e zabaione e una crostatina secca ammorbidita appena da un goccio di marmellata. “Oggi mi concederò uno sfizio!
Passando davanti alla guardiola s’imbatté nella portinaia. Quattro chiacchiere sul caldo che non dava tregua e sul fatto che il caseggiato si fosse svuotato.
-Ma lei, per caso, sa chi verrà ad occupare l’appartamento dei Malvestio? – chiese ad un tratto – non ci riempiremo mica di extracomunitari, vero?
-E chi lo sa, signorina cara, coi tempi che corrono … ce li ritroviamo da tutte le parti … mio marito però dice che l’appartamento è in vendita.
-Allora arrivano i cinesi! – sentenziò Ghitta – quelli hanno i soldi in contanti … si stanno comprando l’intero quartiere!
Le botteghe che costeggiavano il corso, un tempo di proprietà di famiglie italiane, ora erano in mano a gestori figli del Sol Levante.
-Una vera cinaton! – rise la portinaia famosa per storpiare i nomi stranieri – però ci trovi buone cose a prezzi modici.
La signorina Ghitta fece una smorfia: lei non comprava niente che non fosse esclusivamente made in Italy.
-Staremo a vedere – concluse – speriamo solo che vengano ad abitare persone tranquille e rispettabili. Accostò l’orecchio all’uscio della signora Bardone: le sembrò di udire al di là della porta lo struscio dei gatti ma era solo un’impressione. La porta si spalancò improvvisamente.
-Venga, venga, la prego. Le faccio conoscere i miei tesoretti.
Il braccio della signora Bardone la calamitò nell’appartamento. Le finestre spalancate facevano entrare una luce così violenta che gli occhi strizzarono abituandosi gradualmente. Dal biancore abbagliante emersero delle stanze piene zeppe all’inverosimile di mobili, quadri, tappeti, lampade e ninnoli, sparati a casaccio, senza ordine e senso. Si trattava di un percorso ad ostacoli in cui le sedie erano disseminate dappertutto, i ripiani dei mobili stracolmi di oggetti impossibili tra loro, le pareti foderate di quadri appesi in modo bizzarro e i lampadari pendevano da posizioni eccentriche. Dominavano colori contrastanti che ferivano gli occhi. Ghitta si domandò se esistessero armadi perché sulle porte e i pomelli dei mobili erano sistemate grucce grondanti di vestiti, in massima parte tuniche e vestaglie, tra le quali troneggiavano un impermeabile primaverile ed il cappotto pesante di lana. Dalle spalliere delle sedie penzolavano calze, indumenti intimi, cinture e qua e là pure degli ombrelli.
-Non faccia caso al disordine, un giorno o l’altro metterò a posto … venga, non abbia paura: i miei gatti sono socievoli e buoni.
Se ne stavano accoccolati nel letto matrimoniale, neanche a dirlo disfatto. Due sonnecchiavano, Giacinto, quello di color miele, era disteso a pancia all’aria.
-E’ l’ora del pisolino … li guardi, non sono adorabili? Quelle sono Malvarosa e Camelia, due gemelle e l’altro lo conosce già … Giacinto.
-Non sapevo che tra i gatti esistessero i gemelli!?
-Oh certo! Sono due gocce d’acqua, me l’ha assicurato chi me li ha regalati. Giacinto invece l’ha raccolto per strada mia figlia, un randagio orfanello, povero il mio tesoro …
-Li ha chiamati coi nomi dei fiori?
-Oh sì, sono i fiori del mio giardino. Vede, vivevo in una casa in campagna, con un giardino e tante bestie, cani, gatti, un cavallo e pappagalli, canarini, criceti, uno zoo insomma.
La signora Bardone aveva uno sguardo sfocato, come se davanti a lei si fosse materializzata la scena che stava descrivendo: – Mio padre portò perfino uno scimpanzé da uno dei suoi viaggi … ma poverino morì poco dopo perché da noi fa troppo freddo.
-Suo padre?
-Era un esploratore … da giovane, poi si è convertito alla tassidermia. Vuole vedere una cosa?
Non fece in tempo a fiatare che da una cassapanca saltò fuori un esemplare imbalsamato di gatto che la signora Bardone accarezzando chiamò Pulcinella.
-E’ stato il mio gatto finché mi sono sposata – disse – allora ci piaceva chiamarli con il nome delle maschere. Mia sorella aveva Arlecchino e per mio fratello c’era Gianduia. Bei tempi passati! Ma come si dice, acqua passata non macina più, e ficcò l’imbalsamatura nella cassapanca. La signorina Ghitta si stava chiedendo se l’accettare la proposta di passare assieme il Ferragosto fosse stata una buona idea. Il dubbio lasciava però posto ad un pizzico di curiosità per quella donna imprevedibile. Non era facile capire cosa le passasse per la mente, da un momento all’altro, saltava di discorso in discorso con disinvoltura, smemorata ed approssimativa in taluni casi diventava precisa e rigorosa senza timore di contraddirsi. In salotto Ghitta vide il lampadario di gocce di cristallo, pendeva in posizione laterale rispetto al centro del soffitto e aveva un gran bisogno di essere spolverato. La signora Bardone si scusò dicendo che la domestica si era licenziata da una settimana e non c’era stato verso di sostituirla. – Mia figlia è ricorsa alle agenzie interinali per il lavoro, ma non se ne trovano di italiane, soltanto ucraine o rumene. Fosse per me accetterei anche una lappone, ma mia figlia non transige.
-Ha ragione – decretò Ghitta – nemmeno io terrei in casa una extracomunitaria … passi una meridionale, ormai ci sentiamo tutti italiani, no? Ma negli anni 50 guai a tenere un terrone in casa! Servotte di paese, balie delle nostre montagne, sguattere di campagna, ecco cosa preferivamo.
La signora Bardone non condivise il ragionamento della signorina Ghitta ribadendo le sue preferenze per chiunque bando alla nazionalità e concludendo che un esempio lo incarnava la badante russa delle signorine Sbrilli: – Quella cara Larissa purtroppo è sparita. Che fine avrà fatto, mi dico? Ghitta mostrò freddezza al nome evocato, non le era piaciuta la bionda russa che ancheggiava su per le scale e la salutava con un sorriso sornione. “Sembrava che mi prendesse in giro” pensò infastidita ed osservò: – A parer mio, quella teneva un marito da qualche parte, sebbene se la facesse col nostro signor Giacomo.
La signora Bardone mostrò meraviglia. – Sì, li ho sorpresi che si tenevano per mano …
-Beh! Non si può dar torto al signor Giacomo di cercar compagnia, così solo, il figlio lontano, la moglie morta tanti anni fa! La conoscevo la signora, sa! Non ricordo il nome, tanto bella e fine!
-Meglio vedovi comunque – rispose Ghitta – che subire una matrigna … parlo per esperienza – e s’interruppe. Un nodo acido le salì in gola al ricordo improvviso dell’Odiata e cambiò discorso perché non era da lei lasciarsi andare a confidenze con un’estranea. Fece dondolare il pacchetto delle pastarelle: -Se non le metto in frigo, si scioglieranno.
-Allora la raggiungo con le lasagne e tutto il resto. Gradisce un goccio di vino buono?
Di ritorno nel suo appartamento la penombra l’avvolse con un respiro di fresco e profumato. Imbandì la tavola in tinello, cambiò l’acqua al vaso di rose, mise in funzione i due ventilatori e, in cucina, affettò il cocomero disponendo le fette in un piatto, mentre le pastarelle finivano in frigo.
La signora Bardone intanto si decise ad addomesticare il ciuffo ribelle di capelli prima di presentarsi alla porta della signorina Ghitta e cambiò abito. Una tunica di garza viola quaresima con un sacco di collane variopinte.
-Ho portato quello che avevo – disse mostrando due sporte zeppe.
-Ma le avevo detto di non esagerare, suvvia! Non dobbiamo mica strafogarci con questo caldo …
Assaggiò una fettina di lasagna mentre la signora Bardone se ne accaparrò una di dimensioni considerevoli; poi fu la volta della coppa tagliata spessa un dito, del pecorino stagionato e per finire la teglia di melanzane, peperoni gratinati al forno con mozzarella e pomodori. La signora Bardone aveva insistito per stappare il cabernet e ne stava versando il terzo bicchiere a Ghitta: – Per carità, non sono abituata, lasci stare …
-Il vino fa buon sangue … vedrà come si sentirà meglio! Gli occhi ammiccarono brillanti ed il rossore del naso sembrò una scottatura di sole. Alla signorina Ghitta sembrò che la donna avesse confidenza con il bicchiere, ne tracannava uno dopo l’altro con naturalezza e non pareva subirne contraccolpi. Essa invece si sentì le trottole in testa benché avesse mangiato a sazietà. Cominciò a sudare, cosa che le succedeva di rado. Ne approfittò per alzarsi da tavola, aumentare la velocità dei ventilatori e darsi un’occhiata. Aveva le gote purpuree e un divertito scintillio negli occhi. Si rinfrescò con una manata d’acqua. La testa cessò di girare, si sentì leggera come se tutto il cibo ingurgitato suo malgrado si fosse dissolto. Quando tornò in tinello, la signora Bardone si era allargata nella poltrona allungando su una sedia le gambe, con un’espressione placida e rilassata.
-Se permette, cocomero e dolci li rimandiamo a più tardi – propose – ora ce la raccontiamo un po’.
Aveva una borsettina di rafia con sé. Ne trasse accendino e sigarette: -Disturbo se fumo? Ah bene. Accidenti! Ne ho solo una …
Ghitta si accoccolò nell’altra poltrona e distese le gambe. La nuvola di fumo che circondava il viso della Bardone sembrò un’aureola.
-Non so come si chiama? – chiese all’improvviso.
-Velia … come quella della Vedova allegra, ma neanche io conosco il suo nome professoressa Gnoccarini.
-Ah già … il mio nome è Margherita, per tutti Ghitta.
-Ora che ci siamo presentate, potremmo passare al tu, che ne dici? Dammi un posacenere, ti prego, che sporco questo bel pavimento.
Le due donne per qualche minuto restarono in silenzio. Velia fumava lentamente, ad occhi chiusi. Ghitta l’osservava trovandola piacente con il ciuffo ribelle, le guance carnose e le pieghe del collo morbide. Le ricordava proprio zia Carlotta che amava i colori accesi e fumava sigarini lunghi ed aromatici. Come mai le avessero concesso di trascorrere con lei un’estate non se l’era spiegato se non con la sorpresa di ritrovare, al ritorno, il padre sposato una seconda volta. Glielo avevano tenuto nascosto fino all’ultimo momento, l’avevano spedita in campagna, a casa di zia Carlotta che nessuno in famiglia amava perché era troppo moderna. Ghitta allora aveva compiuto quindici anni, devotissima al padre, mai avrebbe pensato che convolasse a nuove nozze. Era partita felice di trascorrere le vacanze con la zia un po’ stravagante ma affettuosa. Era ritornata depressa ed infelice perché innamorata di un uomo impossibile e a casa l’aspettava una sorpresa altrettanto funesta. Ora era Velia ad osservarla mentre, chiusi gli occhi, rievocava quell’estate lontana.
“E’ un po’ bacchettona per i miei gusti -pensò “ma ha dei tratti da nobildonna …
Aveva voglia di un caffè, ma non osava muoversi per timore di svegliarla. Le lame di luce che filtravano dalle tapparelle illuminavano debolmente la stanza; fuori saliva il concerto delle cicale del cortile interrotto da qualche trillo di uccello. La città era ferma nella calma postprandiale del Ferragosto, il caseggiato assorbito nella calura di quel giovedì d’estate. Maddalena l’avrebbe portata il giorno seguente all’appuntamento di cui avrebbe fatto volentieri a meno. Eccolo il pensiero molesto che si era rifiutata di ascoltare. Mannaggia a lei e all’idea di confidare alla figlia il piccolo segreto: un nodino, quasi una perlina di vetro, come quelle delle collane che si divertiva a far rotolare fra le dita. Maddalena si era allarmata, tempestandola di visite e telefonate, costringendola a fissare un appuntamento con un senologo della clinica Santa Eufemia. Alla preoccupazione sorta subito dopo la scoperta, era subentrata una serafica quindicina di giorni durante i quali Velia s’era scordata dell’accaduto, fino al sabato in cui, quasi distrattamente, ne aveva fatto cenno a Maddalena. Il medico nel corso della visita consigliò di rivolgersi allo specialista e Maddalena si era informata immediatamente su chi godesse fama di eccellenza nel campo. Se non si contavano gli acciacchi dell’età aggravati dalla sua pigrizia innata, Velia si ritrovava per la prima volta ad affrontare un’incognita importante. Ed era sola. Non intendeva scaricare su Maddalena l’ansia e non aveva più a portata di mano colui che l’ascoltava con pazienza ed imperitura devozione. Le rimanevano i gatti, adottati dopo la scomparsa di Gino, la casa da cui si distaccava con crescente riluttanza e i bicchieri di vino scolati lungo la giornata che le regalavano buonumore e solenni dormite. Il risultato delle pennichelle e delle abbondanti libagioni si era tradotto in aumento di peso, per cui, buttati gli indumenti striminziti, aveva scelto comode tuniche nelle quali celare i chili di troppo. Tinte forti, accese per cancellare la malinconia. La casa era diventata un bazar sebbene Maddalena la rimproverasse di essere sciatta e disordinata. Se ne allontanava mal volentieri, appena in tempo per fare due spese o le commissioni impellenti. Aveva scoperto quante trasmissioni interessanti vi fossero in tivù, thriller, quiz, documentari, caroselli di pubblicità e poi il vino. Rosso, fresco, frizzante scendeva in gola con facilità. Era difficile tenerlo nascosto. Maddalena se ne sarebbe accorta e allora ecco la portinaia cui allungava laute mance e regali per farsi portare le bottiglie di cabernet sublime della fiaschetteria e pagare il suo silenzio. Non raggiungeva mai stati d’ebbrezza vera e propria, ma andava a letto contenta e si risvegliava di buonumore. Ora era soddisfatta di come stava andando il Ferragosto ed accantonò il pensiero della perlina di vetro.
-Ce lo facciamo un caffettino? – chiese non appena si rese conto che Ghitta era sveglia. Mentre la cuccuma bolliva, ne approfittò per allontanarsi con la scusa di dare un’occhiata ai tesoretti. Ritornò con un’espressione misteriosa ridacchiando come una bambina. Ghitta aveva versato il caffè e preparato il vassoio delle pastorelle.
-Uhm che aroma delizioso! A mio marito non piaceva … io non lo capivo … come si fa a non amare il caffè!
-Lo gradisco anch’io dopo il pranzo – ammise Ghitta – anche se non ne sono una accanita estimatrice. Preferisco le tisane e il the.
-Puah! Tutti intrugli buoni a sciacquarti lo stomaco! Scusa se sono sincera, ma a me sembrano bevande senza personalità. Il caffè è forte come uno schiaffo, eccitante come un abbraccio … hai mai provato a fumare qualcosa di proibito? Ghitta sussultò. Da una delle pieghe della tunica sbucò un cartoccio stropicciato, una sigaretta corta, scura, senza filtro. Velia ridacchiò: – Sai di chi sono? Le ho scoperte per caso, dietro alle cassette della posta, giù in androne. Nemmeno i portinai se ne sono accorti!
Ghitta impallidì. – Eh …lo sposino dell’ultimo piano … ora che ha il marmocchio ne fuma di meno. Devo fare attenzione che non se ne accorga, allora ne prendo una ogni tanto! Hai mai provato?
Ghitta si rianimò: – Per carità! Uno spinello?! – e scosse la testa con disapprovazione. Era stata una fautrice delle crociate anti spinello nella scuola. Velia non s’impressionò. Trasse l’accendino e l’accese.
-Vedi come è facile? Non dirmi che ai tempi delle superiori non te ne sei mai fatto uno! Circolavano allora come il pane …
-E’ vero. Molte mie compagne mi invitavano a provare ma io ho rifiutato. Fanno male e sono indecenti.
-Macché! Cosa vuoi che possa fare una tirata di fumo, con tutto lo smog assassino che ci asfissia … – ribatté Velia aspirando con voluttà – e a parer mio, altre cose sono più indecenti! Vale bene provare di tutto in questa vita … non abbiamo una seconda possibilità.
Se negli occhi passò un’ombra di tristezza, Ghitta non se ne accorse perché balzando in piedi di scatto le aveva voltato le spalle. Davanti a lei una donna fumava uno spinello proibito, come quelli sequestrati a scuola e sui quali la pubblica opinione gettava discredito.
“Una drogata, ecco con chi sto trascorrendo il Ferragosto! Dio mio, aiutami” pensò aguzzando le orecchie: le pareva di sentire la sirena della polizia. Velia si era nuovamente accoccolata nella poltrona con l’aureola di fumo più denso. Il naso di Ghitta captò la prima spira di odore che l’aria dei ventilatori faceva fluttuare come una sciarpa. Non le dispiacque. A scuola era un segugio nel rintracciare la scia dei clandestini nei bagni o nei magazzini dei bidelli: l’odore era acre e pesante. Questo invece era gradevole, di fieno appena tagliato.
-Sono di ottima qualità – stava dicendo Velia – non come quelli che giravano ai nostri tempi! Non voglio insistere … se proprio non vuoi … se hai paura che ti faccia male … una volta una mia amica ha vomitato l’anima …
-Non mi spaventano le conseguenze – ammise Ghitta – una boccata non mi farebbe male! Lo so! E’ l’idea … non mi mai sfiorato finora … non ho mai fumato in vita mia.
Velia la guardò senza parlare: la sigaretta stava per finire, un mozzicone informe ed indecente. Se lo trovò tra le dita senza saperlo. Tossì un paio di volte, gli occhi lacrimarono, si abbandonò nella poltrona e chiuse gli occhi. Di nuovo l’immagine di zia Carlotta.
FINE della SECONDA PARTE