Maria Stuarda, la regina romantica
Parigi, 5 dicembre 1560. Nella penombra, sul grande letto a baldacchino, riposa un morto.
È il cadavere d’un fanciullo. Non dimostrerebbe nemmeno quindici anni d’età se non avesse i paramenti regali a gravargli sulle membra ormai irrigidite e rese gelide dalla dipartita della vita dal suo corpo. Eppure quel morto bambino, in vita fu un re, Francesco II di Valois era il suo nome.
Con le mani abbandonate sul lenzuolo candido, accanto se ne sta la sua vedova che lo piange. Una bellezza severa la rende più matura dei diciotto anni che sta per compiere. Il dolore ha cancellato quel sorriso che, trasparente e gaio, prima le donava un fascino raro.
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Maria, così si chiama la giovinetta che piange, non sa neppure lei perché piange.
Amava suo marito? Si era fidanzata con lui quando aveva sei anni e, come una sorellina maggiore, lo aveva guidato nei giochi. Lei era già regina, allora: la morte del padre, Giacomo V Stuart, le aveva fatto cingere la corona di Scozia a soli due giorni di vita.
La madre, l’inflessibile Maria di Lorena, una francese della potente famiglia dei Guisa, aveva deciso di mandarla nella propria terra natia per sottrarla ai disegni di Enrico VIII, re d’Inghilterra, che l’avrebbe voluta per suo figlio Edoardo Tudor. Così la piccola Maria, anziché al principe di Galles, era stata promessa al delfino di Francia.
Aveva mai amato suo marito? Lo aveva sposato due primavere prima, dopo che Francesco era entrato nei tredici anni. Adesso che le giaceva innanzi, morto, nel proprio intimo si rimproverava d’averlo tacciato di debolezza, di fragilità. Si rimproverava persino d’averlo considerato capriccioso… Lo avrebbe voluto deciso, eroico: invece, lo aveva visto succube della madre, di quella Caterina de’ Medici che era stata per lei una suocera terribile.
Anche gli zii Guisa lo avevano tiranneggiato e lei, che nelle vene aveva per meta il loro stesso sangue, non aveva fatto nulla per impedirlo. Ora se ne sta lì e piange, sconsolata. Piange il compagno d’infanzia che ha perduto più che lo sposo. E piange su sé stessa. Sì, soprattutto su sé stessa!
Come regina di Francia, la sua sorte era tracciata, si snodava piana davanti a lei. Adesso, che è una vedova, invece, tutto verrà rimesso in discussione. Dove la porterà il futuro? Probabilmente in Scozia. Sua madre è morta da poco e la reggenza è stata assunta dal suo fratellastro, lord James Stuart.
Da una parte, Maria desidererebbe con tutto il cuore rivedere la propria patria. Dall’altra, teme il rientro. La Scozia attraversa una grave crisi politica. Molti nobili hanno abbracciato il calvinismo e non per effettiva convinzione religiosa. Lo hanno fatto, in un certo senso, per legittima difesa, per mettere un freno alla tracotanza e all’eccessiva ricchezza della Chiesa Cattolica locale e per liberarsi di tutti quei francesi cattolici, fedelissimi al Papa, che Maria di Guisa si era trascinata al seguito e che aveva piazzato a Corte e nell’esercito.
Cose passate, cose che si perdono nella nebbia di quel momento di strazio e che il pianto scioglie in ricordi sfocati…
Le domande, i dubbi umani di fronte all’ignoto, così comprensibili in una ragazza di diciotto anni, non lasciarono traccia e le ipotesi degli studiosi possono appena risvegliarli dal silenzio dei secoli. La storia offrì a Maria Stuarda un’occasione onorevole con cui rimediare alla propria vita.
Furono i nobili protestanti scozzesi a richiamarla a Edimburgo come regina. Che si aspettavano veramente da lei? Che, data l’età ancora acerba, fosse sufficientemente malleabile?
Comunque fosse, le imposero due condizioni vincolanti: innanzi tutto, Maria avrebbe potuto continuare a professare la fede cattolica purché lo facesse privatamente e non desse scandalo; in secondo luogo, era senz’altro meglio che rinunciasse a vane pretese sulla corona d’Elisabetta. Al limite, se la “regina vergine” non si fosse sposata, Maria sarebbe potuta subentrare come sovrana alla morte di lei, quale legittima erede.
Maria Stuarda accettò e non fu affatto facile rispettare gli impegni assunti. La tentazione di cedere dovette assalirla più volte, pensando che sarebbe bastato abiurare il suo credo per trasformare in plauso il sospetto latente con cui veniva osservata.
Ella si conservò cattolica, senza compromessi, perché aveva una fede incrollabile, pur con tutte le debolezze, pur con tutti gli abissi scavati nella coscienza, pur con tutti gli sbagli dettati dalla sua umana imperfezione.
Ma Maria era anche astuta. Purtroppo però trovò un’antagonista che lo fu più di lei. Sperava che Elisabetta I la scegliesse e la costituisse sua erede. Invano. La figlia di Anna Bolena trovò mille scuse per non incontrarla e, tenendola a distanza, non preferì mai una promessa, una parola che mutasse le attese precarie in certezza.
La regina d’Inghilterra non aveva fretta e sapeva temporeggiare. D’altronde, era maggiore della sua aspirante erede di soli nove anni e si considerava troppo giovane per disporre della propria morte. Anche quando fu colta dal vaiolo, che la sfigurò, non pensò a Maria. Senza scomporsi, aspettò freddamente che il male passasse ed ebbe la tenacia di guarire.
Ecco quello che di Elisabetta mancava a Maria, la freddezza, l’algida imperturbabilità.
La giovane scozzese aveva un’indole passionale, l’indole genuina di una donna celtica, guastata un poco dagli agi e dalle blandizie che l’avevano circondata in terra di Francia. Se anche riusciva a ragionare con autocontrollo, presto sopraggiungeva l’ardore a scombussolare i suoi piani.
Così era avvenuto, ad esempio, nella decisione di riprendere marito. Non aveva voluto una testa coronata europea, per non inimicarsi la Tudor e perdere così ogni diritto relativo al trono d’Inghilterra. Con un distacco insolito in lei, scelse a tavolino un partito che era a capo della fazione cattolica dell’aristocrazia scozzese e che, con un po’ di cautela, avrebbe potuto convenire anche all’intransigenza della rivale, Lord Henry Darnley.
Lord Henry le ricordava il suo primo marito, del quale aveva la stessa età. Sarà stato per questo che quando l’uomo si ammalò di rosolia, ella si sentì sopraffare dal senso materno e corse al suo capezzale per assisterlo. La vicinanza per più giorni, il languore della malattia, le prime carezze tra le coltri, fecero il resto. Quando sopraggiunse la convalescenza, la regina di Scozia era già profondamente innamorata.
Non si era accorta che Darnley era di un’arroganza smisurata, anzi, aveva scambiato il suo atteggiamento dispotico per un sintomo di carattere volitivo, la cui assenza le era sovente dispiaciuta nel defunto consorte. Né aveva dato peso alle stravaganze e alle leggerezze di quel damerino viziato. Purtroppo le era mancata la figura paterna e non poteva fare confronti.
Maria non aveva riferimenti in materia e non sapeva giudicare gli uomini.
Ardente d’entusiasmo, volle sposare subito il suo Henry. Non ascoltò chi le consigliava di pazientare ancora, per non turbare Elisabetta, e le nozze furono celebrate il 29 luglio 1565, sul far del giorno. Maria aveva allora ventitré anni.
Barricatasi in un gelido silenzio, Elisabetta non le rimproverò quel matrimonio con un cattolico. Fu lei stessa, purtroppo, a dover riconoscere l’abbaglio che aveva preso.
Darnley la deluse e lo fece anche troppo presto. Il loro rapporto si trascinò per due anni, tra alti e bassi. Spesso Maria allontanava il marito, poi, vinta dai rimorsi, lo richiamava a sé e gli curava la sifilide.
Gli rinfacciava soprattutto d’essere assolutamente inetto come statista. Persino il suo segretario, un italiano d’origini borghesi, era un politico più accorto dello sposo! La regina cominciò a stimare Davide Rizzio assai più di Darnley e, si sa, dalla stima all’amore il passo è breve… Lo volle come amante e qualche maligno sparse la voce che il figlio da lei portato in grembo sarebbe stato di sangue più latino che scozzese.
Punto nell’orgoglio se non nella gelosia, lord Henry decise di sbarazzarsi di Rizzio. Lo fece trucidare nel corridoio, a Holyrood, mentre usciva dalla camera di Maria. E fu con quel delitto che, forse, decretò la propria condanna a morte.
Maria non parve reagire: il 19 giugno 1566 diventò madre del futuro Giacomo VI (che fu poi Giacomo I d’Inghilterra) e apparentemente dimenticò. In realtà, si era già presa un altro amante. Era stanca di sposi bambini: così ascoltò le lusinghe di lord Bothwell, un uomo brutto, deforme, dal temperamento violento che, tuttavia, aveva due grandi meriti. Era uno scozzese tanto integralista da odiare gli inglesi in blocco e, finalmente, era più vecchio di lei di ben sei anni!
James Bothwell non perse tempo in chiacchiere e ordinò di far saltare in aria la residenza di Kirk of Field, nella quale Darnley trascorreva un periodo di convalescenza. Probabilmente lord Henry sopravvisse allo scoppio ma, mentre si metteva in salvo, trovò una mano nemica che lo strangolò. Quindi, “condusse” la regina nel maniero di Dunbar e la costrinse a sposarlo. Era il 1567. Lo stesso anno in cui Maria era rimasta vedova per la seconda volta.
Anche quello con Bothwell fu un matrimonio politicamente errato. Lord James non piaceva agli scozzesi perché aveva modi brutali. I nobili non lo potevano soffrire, ritenendolo a ragione l’assassino di Darnley. Solo troncando l’unione con lui Maria avrebbe potuto salvare sé stessa e il trono. Ma non lo fece.
A decidere per lei fu una rivolta popolare che divampò il 15 giugno 1567. Mentre Bothwell fuggiva per mettersi in salvo in Danimarca, Maria venne fatta prigioniera a Carberry Hill, e quindi rinchiusa nel castello di Lochleven (da cui si dileguerà in maniera rocambolesca e misteriosa).
Dopo aver abdicato in favore del figlio Giacomo VI, affidato allo zio James Stuart di Moray, non le restò che riparare in Inghilterra e ad affidarsi alla protezione di Elisabetta.
La Tudor reagì con la solita impassibilità. Maria non le era simpatica; per di più, la sua avvenenza le suscitava anche invidia. Ma ella era pur sempre una regina e, tra sovrane, è naturale che s’accenda la scintilla della solidarietà. Le giovava tenerla segregata ma non la considerava una prigioniera. E non pensava affatto d’eliminarla.
Furono gli intrighi a forzarle la mano. Infatti, presto Elisabetta si rese conto di quanto fosse pericoloso avere presso di sé una regina cattolica, in quanto i cattolici ne rivendicavano l’autorità.
La situazione precipitò nel 1578 con la morte di Bothwell, spentosi pazzo nel castello danese di Adelersborg. Fu allora che, ovunque in Europa, spuntarono nuovi pretendenti alla mano di Maria. Tutti la volevano liberare, tutti la volevano sposare.
Ci provò il suo stesso cugino, il duca di Guisa, che, considerate meglio le difficoltà cui andava incontro, trovò più prudente fare marcia indietro. Accarezzò l’idea anche don Giovanni d’Austria ma non ebbe alcun appoggio dal fratello, Filippo di Spagna. In Inghilterra, il duca di Norfolk macchinò nientemeno d’uccidere Elisabetta e di diventare re al fianco di Maria Stuarda. Ovviamente, la Tudor si sbarazzò di lui prima che potesse nuocerle.
La goccia che fece traboccare il vaso fu la congiura maldestra d’un giovanotto oscuro, un certo Anthony Babington, che era stato paggio di Maria e che ne aveva conservato un’idilliaca reminiscenza. Egli tentò di far evadere la regina di Scozia. Non ci riuscì. Pagò l’affronto con la vita e compromise del tutto Maria.
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L’11 ottobre 1586, la Stuarda fu processata e condannata come correa. Riluttante, perché una sovrana non delibera mai la morte d’una sua pari, alla fine Elisabetta si risolse a firmare la sentenza.
Maria salì sul patibolo il 7 febbraio dell’anno successivo, a Fotheringay.
Morì, senza immaginare che suo figlio sarebbe succeduto a Elisabetta come Re d’ Inghilterra
Morì pentita della congerie d’errori che, per lei, non avevano attenuanti. Anche nel pentimento fu una donna celtica, tanto incline alla passionalità quanto alla spiritualità.
Analizzando il personaggio, questi due aspetti restano inscindibili sebbene l’arte volle privilegiare il secondo a discapito del primo.
Maria Stuarda ispirò poeti e musicisti e incarnò per loro il mito della donna che offre la sua vita per la fede, che accetta il martirio pur di non piegarsi al sopruso di chi pretenderebbe di calpestare la sua coscienza.
Un mito pieno di suggestioni, d’accordo, ma che non rispecchia del tutto quella che fu la sua identità.
Forse solo la voce di Vittorio Alfieri si staccò dal coro inneggiante e fu maggiormente obiettiva. Ma Alfieri aveva una conoscenza più diretta di Maria, avendo “rubato” la moglie, quella Luisa d’Albany che fu sua compagna per oltre vent’anni, proprio a un pronipote della Stuarda…
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