La mia vita in una compilation musicale (La luce dell’ Est)
Belgrado. Inizi di giugno del 1973. Per me e i miei amici canottieri era la prima gara fuori dall’Italia. L’adrenalina scorreva a mille!
Partimmo da Bari carichi di aspettative, non solo dal punto di vista sportivo. Questa gara rappresentava un’opportunità unica per entrare in contatto con un popolo dell’Est europeo e, perché no, per sperimentare l’inglese scolastico, magari in compagnia di qualche bionda slava.
Belgrado si presentò ai nostri occhi come un vasto contenitore di case popolari. Senza fronzoli. Ridotto all’essenziale. Persino Bepi, l’allenatore noto per la sobrietà nelle sue scelte logistiche, deglutì per lo stupore nell’osservare l’albergo destinato ad accoglierci.
All’ingresso, un ampio atrio; ai lati, tavolacci appoggiati su supporti rudimentali e sedie di legno tarlato. Ogni stanza ospitava cinque materassi appoggiati a sbarre di legno.
“Almeno è pulito!” fu la frase consolatoria di Bepi, sempre poco credibile però sull’argomento.
Con i bagagli sistemati nel dormitorio, l’attenzione si spostò sui rituali delle nostre trasferte: scarico, montaggio e prova in mare delle barche. Al ritorno, una sorpresa: la bettola era un pullulare di donne. Bionde, quasi tutte.
Non è che Bepi, nel cercare di risparmiare sulla trasferta, aveva prenotato, senza saperlo, un locale equivoco?
La tensione si mescolava all’eccitazione e gli sguardi riscaldavano l’animo. La situazione che stavamo vivendo era inaspettata e sorprendente.
Erano ragazze bellissime. Giovanissime quanto noi. Qualcuno del mio gruppo sembrava già innamorato.
Ci guardavamo compiaciuti. Da un lato le donne sorridevano timidamente, dall’altro noi tutti eravamo intimoriti.
C’era chi già immaginava con la fantasia cosa potesse accadere. Ma chi avrebbe dovuto prendere l’iniziativa? E cosa si poteva fare in questi casi? Gli interrogativi agitavano le nostre menti.
Nicola si alzò.
Tutti gli occhi sbarrati erano puntati su di lui.
Sembrava sicuro di sé. Ma che stava facendo? Non era possibile! Aveva preso in mano il suo strumento e si era voltato verso le ragazze, mostrandolo con orgoglio.
La meraviglia era generale.
C’era attesa su quello che stava per accadere.
Il ritmo del respiro alleggeriva il pesante silenzio che stava accompagnando l’attesa dell’azione. Dopo un breve istante di esitazione, con destrezza, Nicola iniziò il movimento delle mani. Già dai primi colpi, capimmo il suo intento e decidemmo di seguirlo.
“La nebbia che respiro ormai..”.
Sugli accordi scanditi con maestria da Nicola sulla sua chitarra, ci unimmo per intonare la canzone di Battisti.
“Scusa se non parlo ancora slavo, mentre lei che non capiva disse bravo…”.
E “bravo” fu l’unica parola che le ragazze riuscirono a cantare e capire, ripetendola con un applauso.
“Poi seduti accanto in un’osteria, bevendo un brodo caldo, che follia”.
Beh, non era proprio un’osteria, ma il brodo caldo l’avevamo effettivamente gustato.
Ma forse Mogol e Battisti si erano ispirati a questo luogo?
“che come un sole rosso acceso, arde per me” gli accordi finali chiusero la canzone.
Partì spontaneo un lungo applauso.
E poi, ancora, “In un mondo che” e ancora “Come può uno scoglio..”
“Tutti a nanna”, fu l’invito improvviso e perentorio di Bepi.
Si stava facendo effettivamente tardi.
Lasciammo lo stanzone con le ragazze, alcune sorridenti, molte erano timorose, solo qualcuna alzò lo sguardo.
Nei profondi occhi tristi, scorsi un improvviso bagliore di luce. La musica aveva illuminato, anche solo per un attimo, lo sconfortante grigiore delle loro esistenze.