La mia vita in una compilation musicale (Rimanete molto , c’è molto da piangere)
Quando sono in macchina e qualcuno mi chiede di collegare il mio cellulare per mettere su della musica entro in ansia da prestazione, non perché non mi piaccia decidere cosa ascoltare, figuriamoci, ma perché mi fa sentire un po’ nuda nel caso in cui, affidandomi alla riproduzione casuale, capitasse uno dei miei pezzi del cuore. Non lo
so, mi fa sentire nuda e disconnessa; nuda perché ci sono pezzi che raccontano molto di me e disconnessa perché mi riportano indietro nel tempo, cosa che faccio almeno sedici volte al giorno come tutte
le persone nostalgiche come me.
La prima volta che ho pianto singhiozzando a squarciagola, è stato
per mano dei Negramaro, ma non per una sola canzone, ma per colpa di un intero album, La Finestra. Si, Giuliano mi fece capire subito tre cose: la prima è che avrei pianto molto per amore, che il mio cuore preferisce la musica italiana e che pochi strumenti ma suonati bene sarebbero stati sempre una carezza all’anima.
Oggi, dopo oltre quindici anni dalla scoperta di quell’album, faccio fatica a riascoltarlo a cuor leggero, anzi, confesso che non è neanche nella mia playlist denominata “da ascoltare a piccole dosi”.
Perché gli anni passano, ma le lacrime no, mai; ed è per questo che ho imparato quanto fosse importante rimanere sempre ben idratati.
Durante l’università conobbi il cantautorato che mi sono persa prima della mia nascita, poi quello nato quando non ero ancora ben traumatizzata per apprezzarlo e, infine, il mondo dell’indie, che iniziava a prendere il cuore di noi universitari innamorati, complici i bagni dell’ateneo e i muri delle viuzze del centro.
Iniziavo a scoprire Lucio Battisti con la sua Collina dei ciliegi, De Gregori con Rimmel e la canzone A Muso duro di Pierangelo Bertoli che divenne la mia canzone pre-esame universitario.
Quando ero sul bus 27express che mi portava al patibolo dell’esame, mi sentivo sempre piccola, indifesa e impaurita, ma nBertoli mi dava coraggio, riusciva a farmi raddrizzare le spalle con lo sguardo dritto e aperto verso il futuro.
Non parlare delle canzoni che hanno scandito il primo grande amore sarebbe un po’ come nascondere l’elefante sotto al tavolo, sopratutto se è il mio, il mio è un tavolo veramente piccolo e si vedrebbe anche uno scoiattolo.
Tutto ha inizio con lo Stato Sociale, noi eravamo giovani e di sinistra come loro, “Io con te non mangerei nulla perdo l’appetito e pure il fiato, rimango sospeso appeso ad un lampione come un angelo, un coglione a canticchiare una canzone piena di rime stupide ma più bella di questa perché un po’ come te l’ho quasi solo
pensata”.
La scenografia di questo pezzo si è sviluppata tra il viale dell’università di Lecce e il kebabbaro.
All’inizio si, l’appetito faticava a prendere il sopravvento, troppi sentimenti nuovi, belli e assordanti, poi siamo diventati grandi compagni di abbuffate.
Poi sempre loro, hanno decretato la fine della nostra storia con il brano Per farti ridere di me” E m’hai preso che ero un bambino e sapevo soltanto giocare, farmi male, guardare altrove […] Adesso
cosa facciamo? Impariamo ad odiarci di meno di quanto forte ancora ci amiamo tu ridi forte mentre suono il piano”.
Non ce lo siamo mai detto, ma entrambi sappiamo quanto abbiamo maledetto questo pezzo.
Stato sociale, io vi voglio bene, ma mi perdonerete se probabilmente non verrò mai ad un vostro concerto, sorry not
sorry.