Le vostre storie,Racconti

Incontri

L’avviso precisava che si sarebbe trattato di un disagio temporaneo: nei cinque giorni successivi avrebbero sospeso la corrente per un’ora, a partire dalle otto alle nove di sera.

Dalle otto alle nove, dunque. L’ora del telegiornale che mi tiene compagnia durante  la sera. O dovrei dire che mi toglie quel poco di appetito vomitandomi addosso rutilando brutte notizie squallide. Comunque non c’è nulla da fare. Per le prossime cinque serate ne dovrò fare a meno e ricordare di riscaldare, prima che il microonde si spenga, la cena che non è altro che un insieme di rimasugli del pranzo.

Vivo da sola da anni. Mi accontento di poco.  Non sono giovane e neanche decrepita. Vivo nel limbo della terza età,  una specie di terra di nessuno, così simile all’adolescenza, durante la quale non ci si sente né carne né pesce, tanto diversa da tutte le altre età,  perché la carne o il pesce che sono  diventata comincia a corrompersi, sfaldarsi, imputridire.

Le mie giornate sono fotocopie della stessa giornata: rimpiango il ricordo di ieri, mi ripeto che ciò che conta è l’oggi, attendo con fiducia il domani. Ogni sera, prima di coricarmi, penso di essere proprio una persona distratta perché non mi sono accorta che il domani è stato il mio oggi.

Come saranno quindi  le prossime serate senza la corrente elettrica che accende gli elettrodomestici, riempie di luce gli angoli più scuri e dimenticati del mio piccolo appartamento?

Potrei uscire e passeggiare. È un quartiere di cemento con pochi spazi verdi, qualche ramingo porta a spasso il cane, temo brutti incontri e rischio di prendermi un accidente: le giornate si sono accorciate e tira un’aria umida di polveri sottili e foglie marce. Le previsioni annunciano pioggia. Fa buio presto e non mi resta neppure la consolazione di stare alla finestra a guardare i gatti vagabondi, i voli radenti dei passeri, lo sterminato orizzonte di tetti, antenne, tralicci ed insegne pubblicitarie.

Potrei bussare alla porta di un vicino. È un condominio di persone invisibili che di rado mi capita d’incontrare, piuttosto ne sento i rumori. Lo scalpiccio di tacchi frettolosi, il ronzio di una lavatrice impaziente.

Potrei telefonare a qualcuno e scambiare quattro chiacchiere. Il telefono non mi piace perché voglio poter fissare l’altro negli occhi e la bolletta è sempre più salata per le mie tasche da pensionata.

Che altro mi rimane da fare? Restare a rimuginare al buio non mi garba, troppi brutti pensieri. I ricordi basterebbero a colorare di rosso, blu, arancio, giallo l’opaco della stanza: oggi li temo quanto e di più dei brutti incontri.

Ho deciso. Comprerò una scorta di candele e con quelle mi farò luce per leggere. Ho muri tappezzati di libri ma non leggo da molto tempo. Ogni sera dalle otto alle nove prenderò in mano un volume e ne leggerò alcune pagine. Sembrano guardarmi: “Un tempo ti piacevamo…non ci tocchi più…rinfresca la tua memoria prima che si spenga del tutto la luce!

Stasera mi è capitato tra le mani “Le quattro sorelle Wieselberger”. Che leggerezza nella scrittura della Cialente e come mi commuovo ancora quando incontro Adele la Bella che muore di un male oscuro nella Trieste di un mondo che si sarebbe dissolto a breve nell’orrore e nello scempio della prima guerra mondiale. La Bella alla quale un ammiratore segreto tributò l’ultimo saluto con un’immensa, stupenda corona di rose bianche. La sua bellezza, tanto decantata ed incorrotta, si è cristallizzata nel momento in cui il morbo sconosciuto la rapì. La mia invece è semplicemente svanita con l’età. Sono stata una bella donna desiderata. Forse un po’ vanesia  e fatua: mi lasciavo vincere dalla tentazione di guardare lo specchio ogni volta che me ne capitava uno a tiro. Trascorrendo molto tempo a curare il mio viso ombreggiando gli occhi, arcuando il sopracciglio, sottolineando zigomi e labbra. Caricavo di malizia lo sguardo per poi giocare la partita della seduzione. Ho giocato spesso vincendo molto e perdendo di più. Ora non gioco con nessuno e l’unico specchio che possiedo ha misure così ridotte da inquadrarmi a malapena.

Domani sarà la volta de “Le strade di polvere” di Rosetta Più. È una musica di libro: tra le righe risuonano le note della Tribundina che si portava via i neonati morti, del violino del Giai, della Spinetta della Teresina dei Maturlin, del flauto del cugino Toma’. Suoni che fanno da contrappunto alle stagioni del vivere, agli assalti e alle tregue del destino, alle passioni e alle infelicità della condizione umana. C’è stato un tempo in cui mi piaceva scendere al porto. Vivevo allora in una città di mare, bianca ed azzurra sotto un sole spietato. Invece di frequentare la scuola,  mescolata alla folla di marinai, viaggiatori, pescatori e bighelloni  guardavo salpare le navi, la loro scia spumosa, il formicolio delle mani che salutavano, le grida dei pescatori appena ritornati, il lamento della sirena, il suono dei juke-box nelle bettole disseminate lungo la banchina. Ero una ragazza felice, piena di sogni e di fiducia. Sognavo di partire ed arrivare in un’isola in mezzo all’oceano. Una di quelle isole lussureggianti dove ti basta un gonnellino di paglia da agitare con i fianchi, un serto di fiori per sentirti bella, noci di cocco e pesce per sopravvivere e le braccia di un uomo per sentirti viva. Mi sembrava che al porto tutto potesse accadere, che i sogni si materializzassero e una nave dalla bianca scia e con un pennacchio di fumo sarebbe un giorno partita con me.

Il destino mi fece abbandonare la città di mare. Non sono salita a bordo di navi, né  ho trovato isole lussureggianti. L’ultimo sguardo alla nave risale a pochi anni fa ed abbracciava una folla di straccioni dal volto scuro e i vestiti bagnati sbarcati da una carretta malconcia. Chissà quali sogni li avevano spinti sul mare a cercare la loro isola lussureggiante che alla fine non hanno trovato.

Frugando sugli scaffali più lontani ho ritrovato “Flush” di Virginia Woolf: non ho dimenticato il ritratto del cane che odiava i guanti giallo limone di Robert Browning e che ad un tratto non guarda più la sua padrona perché è morto mentre lei legge una poesia ed il tavolino del salotto rimane immoto. Come fa un tavolino a restare immoto? E gli oggetti a non spostarsi? È una legge di gravità. Siamo noi umani che ci spostiamo continuamente. Per lungo tempo non sono riuscita a fermarmi. Vagabonda per istinto, raminga per necessità familiari, di viaggi ne ho fatti tanti e non solo con il corpo. I viaggi della mente sono più complessi, molteplici, dolorosi, a volte consentono la fuga ed il ritorno, altre volte l’abbandono e il naufragio. Sono fuggita in cerca di emozioni e sensazioni nuove, fino all’altro capo del mondo, in mezzo ai ghiacci o nelle savane infuocate. Mi sono abbandonata a mani sapienti che hanno fatto di me una danzatrice del ventre al ritmo di cembali e tamburi con il corpo cosparso di olio profumato. Sono ritornata a casa impaurita ed infreddolita dopo notti trascorse a bivaccare lungo strade che non portano da nessuna parte.

Oggi conosco il naufragio della solitudine che mi sono scelta. Una scelta coraggiosa. Come quella di Isabel Archer che ho incontrato ieri sera. Coraggiosa ed imprudente Isabel di Henry James.

Ho riscoperto la bellezza dell’incipit del romanzo spalancato nel verde di un tè di pomeriggio inglese e l’incanto dell’incompiuto finale che mi lascia col fiato in sospeso. Come i bambini  che restano sorpresi davanti alle meraviglie del circo, alla magia dei prestigiatori, alla fantasia dei racconti. In sospeso il fiato dura poco, si ha fretta di crescere. Raccontarono a mia madre di aver vinto la guerra. La incantarono  con la loro bionda bellezza, algida e perfetta. Le fecero credere di essere maghi o prestigiatori perché sapevano far uscire dal loro cappello a cilindro rossetti e calze di seta, caramelle e sigarette, giocattoli e biscotti. Quando gli altri la presero, una sera di aprile, a sputi in faccia e le raparono a zero la testa, avevo sei anni e capii che il mio fiato in sospeso era durato troppo a lungo e che meraviglie, magie e racconti fanno a botte con la realtà.

Un’altra sera sarà la volta di “Paula” di Isabel Allende. Non ho avuto figli, ma come non essere d’accordo con lei quando afferma che “i figli, come i libri, sono viaggi all’interno di noi stessi in cui il corpo, la mente e l’anima mutano direzione, si volgono verso il centro stesso dell’esistenza”?

Altro che disagio temporaneo! La sospensione della corrente elettrica mi ha galvanizzato!

Cinque incontri con i libri sono pochi, non mi bastano. Ogni sera mi hanno fatto incontrare una folla di personaggi. Oggi non ho motivo di rimpiangere ieri, ma vivo gustosamente la lettura dalle otto alle nove ed oltre ed attendo con  fiducia il domani perché non sarà lo stesso incontro di oggi.

Incontrare un personaggio, rivivere un viaggio, ricordare una risata o un dolore, farmi diventare di carta ed inchiostro a poco a poco, dimenticare la solitudine e la fatica di vivere. In fondo il mondo dei libri è il nostro mondo, fatto di passioni e miserie, attese e delusioni, inizio e fine. Quando avrò finito di leggere tutti i libri che tappezzano le pareti di casa, cosa farò?

Non ho intenzione di pensarci. Mi sto tuffano nel vecchio caro Tolstoj di “Anna Karenina” e credo che ne avrò per molto tempo.

A proposito, la scorta di candele è finita e mi è costata un occhio della testa, ma fortunatamente è tornata la corrente elettrica.

Novembre 2009

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Loredana Facchinelli

Loredana Facchinelli, 1955, classe di ferro e nuvole, felice nonna di Niccolò, è una maestra in pensione che ama scrivere fin da quando era bambina. Si definisce così: “Mi sento come una coppa spumeggiante di bollicine …a volte è champagne, altre volte solo bicarbonato di sodio”!

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