Trombe e campane
Molti sono i modo di dire fiorentini divenuti proverbiali per via della loro arguzia nonché del forte senso ironico. L’espressione di cui oggi faremo menzione può forse risultare desueta ai lettori più giovani ma certamente non alla maggior parte di quelli che tra noi amano definirsi piuttosto adulti: in effetti, si tratta di una vera frase ad effetto da pronunciare quando, vittime di un affronto o dell’arroganza di un potente, si vuole sottolineare il proprio sdegno, la propria ribellione, facendo presente che la pelle sarà sì venduta, ma a caro prezzo!
Avete capito di quale proverbio stiamo parlando?
Se siete curiosi di scoprire quale sia, come, quando e dove nacque, dovremo tornare indietro nel tempo al secolo XV per rammentare la vicenda in cui Carlo VIII di Valois, re dei francesi, con un grande esercito a disposizione, valicò le Alpi ed inviò i suoi ambasciatori presso i diversi principi della penisola, invitandoli a lasciargli libero il passo allo scopo di raggiungere il Regno di Napoli e soppiantare il dominio degli Aragonesi.
Nella sua discesa verso il meridione Carlo VIII necessitava dunque solo di un passaggio sicuro in terra Toscana, nulla più.
Ma Piero de’ Medici (figlio di Lorenzo il Magnifico e Clarice Orsini, fratello di Giovanni futuro Papa Leone X), ricevuti gli ambasciatori francesi, decise invece di renderglielo assai difficile: a tal fine, si schierò con gli Aragonesi e si raccomandò a destra e a manca di resistere con fermezza alla discesa delle file armate del re.
Carlo VIII disponeva, però, di un esercito davvero potente e quindi, dopo aver espugnato la fortezza di Fivizzano, si mosse alla volta di quelle di Sarzana e Sarzanello.
A questo punto, la viltà di Piero de’ Medici voltò le cose ancor più a mal partito per i toscani. Infatti, temendo ulteriori sconfitte e quindi l’inevitabile calata dell’esercito francese, egli optò per una resa senza combattimenti, consegnando volontariamente le fortezze di Sarzana e Sarzanello, aggiungendovi pure quella di Pisa. Non contento, promise a Carlo anche del denaro e la rimozione di ogni eventuale altro impedimento nel suo passaggio dalla Toscana.
L’ ignominia recata all’onore della Repubblica produsse una grandissima concitazione in tutta Firenze ed i cittadini iniziarono a tumultuare e a tramare di cacciare dalla città Piero, uomo indegno di governare in quanto, senza chiedere consiglio alle autorità, aveva agito di propria iniziativa ed in maniera molto avventata.
Ovviamente, quando Piero arrivò a Firenze per chetare il tumulto, fu invece costretto a darsi alla fuga.
Ma i fiorentini non si limitarono soltanto alla sua cacciata: infuriati, richiamarono dall’esilio famiglie come i Pazzi e i Neroni e si organizzarono per far giungere in città molte persone dalle campagne, armandole come meglio poterono, allo scopo di essere pronti a fronteggiare l’inevitabile incontro-scontro con il sovrano francese.
Ed infatti Carlo VIII si presentò alle porte della città con tutto il suo esercito.
Era il 17 novembre 1494: tronfio di orgoglio attraversò Porta San Frediano e prese dimora presso Palazzo Medici dove ricevette la Signoria Fiorentina per trattare. La sua arroganza era tale da rivolgere richieste impossibili, pretendendo addirittura una resa incondizionata da parte della città al fine di voler essere nominato Signore di Firenze. Non solo: egli voleva essere onorato anche con una somma di denaro talmente ingente da sembrare studiata appositamente per cercare la battaglia.
Insomma, davvero un bel personaggio, quel sovrano francese: tracotante e tronfio ma non stolto. In cuor suo egli ambiva certamente a divenire Signore della nostra città ma sapeva anche che sprecare la forza delle sue milizie a Firenze non aveva senso, in quanto il suo obiettivo era altrove, la conquista del Regno di Napoli. Inoltre, Carlo era ben conscio che i fiorentini, dietro alle finestre chiuse, brandivano già i loro forconi contro di lui!
Fattosi più sospettoso anche per via di una rissa che aveva avuto luogo presso la Porta al Prato tra soldati svizzeri ed il popolo minuto, in fine Carlo si decise a limitare le sue richieste riducendole ad una somma di denaro sempre enorme ma più ragionevole. Commise però l’errore di rimarcare con troppa superbia e supponenza che quella sarebbe stata l’ultima concessione ch’egli avrebbe rivolto in favore della repubblica fiorentina; in altre parole, egli emise niente meno che una sorta di ultimatum.
Provate allora ad immaginarvi questa scena: la delegazione della repubblica fiorentina, capeggiata dal Gonfaloniere di Giustizia Piero di Gino di Neri Capponi che fronteggia la delegazione francese con Carlo VIII in testa. Il re che, con atteggiamento ed accenti volutamente provocatori, rimarca la propria condizione di superiorità su Firenze ed ostenta sicurezza sull’esito delle trattative. I fiorentini che, di contro, tentano di far buon viso a cattivo gioco ma dentro si sentono ribollire per l’umiliazione che tocca loro ingoiare.
Fu così che, all’ingiunzione del Re di accettare le condizioni poste per evitare il saccheggio della città da parte delle sue truppe (la qual cosa poteva essere scatenata con un solo squillo di tromba), il Capponi, travolto da un impeto di orgoglio, sbottò come una pentola a pressione e tutto d’ un fiato pronunciò la frase che è passata alla storia come uno dei proverbi più famosi di sempre:
«Voi date fiato alle vostre trombe e noi… suoneremo le nostre campane!».
In realtà, con questa espressione, il gonfaloniere altro non fece che riferirsi ad una delle più consolidate tradizioni di Firenze: nella storia cittadina infatti le campane suonate a martello servivano di richiamo alla popolazione, sollecitandola ad accorrere poiché sicuramente, una grave calamità stava per incombere. Pertanto «suonare le campane» significava chiamare i cittadini alla difesa in armi della propria città.
Ma il sussulto di orgoglio del Capponi sortì l’effetto desiderato e tenuto conto anche dell’impeto che si faceva sempre più crescente nei rappresentanti fiorentini, il re si decise a trattare, accondiscendendo alla richiesta di imporre condizioni meno gravose.
A pensarci bene, l’aneddoto di Pier Capponi, oltre ad avere contribuito a salvare la nostra città, ci ha fatto dono di un insegnamento utile in molte altre circostanze: non sempre essere arrendevoli è la via migliore da percorrere. C’è infatti un limite oltre il quale bisogna ribellarsi all’ arroganza di chi, sentendosi in posizione di superiorità, crede di potersi permettere tutto.
Mi domando solo se questa lezione gli italiani la ricordino sempre, oppure l’abbiano dimenticata!
Tratto dal libro “ Per le Antiche Strade di Firenze” a cura di Barbara Chiarini – Edizioni Masso delle Fate, Signa – Firenze, anno 2020.