L’ospite di ferragosto (Parte Terza)
Una sera Ghitta le rubò un sigarino e se lo fumò di nascosto, nella legnaia, incurante del fatto che fosse un luogo inadatto allo scopo. Altre cose nascose alla zia. La più eccitante fu quella di farsi baciare dal signor Franco, marito di un’amica di zia. Venivano alla sera, dopo cena, per una scala quaranta giocata al lume dell’acetilene del bersò nel giardino. Ghitta era un’avvenente adolescente bionda con grandi occhi azzurri, il ritratto della sua povera madre. Il signor Franco, uomo già attempato, dalle tempie spruzzate d’argento, aveva un temperamento romantico. La moglie, afflitta da un evidente strabismo di Venere, non si accorse delle occhiate del marito scoccate all’adolescente cui declamava versi dannunziani, anziché intrattenersi alla partita. Perdeva sempre e lei lo redarguiva con veemenza, mentre zia Carlotta, evanescente e volatile come gas, sorrideva inebriata dall’aroma del suo sigarino. Che lunghe le serate sotto al bersò di rose con l’aria pullulante di moscerini e falene, estenuanti per il profumo dei fiori, bianche di luna e stelle, cullate dai grilli e dai richiami di upupe e civette. Ghitta si dondolava sull’altalena scoprendo le ginocchia, il signor Franco, ad alcuni passi da lei, bello, con i riccioli sulla fronte ed il profilo di un dio greco. Se ne innamorò chiedendosi come avesse potuto sposare quella donnetta strabica e brusca. Le batteva il cuore quando giungeva e nel porgerle la mano la salutava. La febbre nel viso se appena le rivolgeva la parola durante le partite. Temendo di tradirsi sgusciava lontano, sull’altalena e rimaneva appesa alle corde, sospesa tra un languore e l’altro, nell’attesa che lui volgesse lo sguardo verso di lei.
-Ghitta, che fai? – chiedeva la zia – servici un goccio di rosolio, suvvia! Basta giocare sull’altalena.
Si lasciava trascinare via con riluttanza perché nel servire i calici di rosolio temeva di svenire al profumo della brillantina dei capelli del signor Franco. Ritornava all’altalena finché il signor Franco, perduta l’ennesima partita, non lasciava il tavolo e le declamava i versi di D’Annunzio. “A pensarci bene, fui io che presi l’iniziativa” ricordò con un fremito “lui era troppo timido …
Una sera l’aveva seguita in cucina con la scusa del rosolio. Era inciampato sulla guida dei gradini e nel perdere l’equilibrio si era aggrappato al suo braccio. Lei l’aveva aiutato a risalire e non si era trattenuta dal toccargli il collo che profumava di verbena. Il signor Franco allora l’aveva presa tra le braccia ed il bacio era stato lungo ed estenuante come una notte d’estate. La sera seguente il signor Franco e la moglie non si fecero vivi e la mattina successiva arrivò il padre di Ghitta: le vacanze erano finite. Non lo rivide mai più. Ne sentì parlare quando zia Carlotta, molti anni dopo, le raccontò che era morto in seguito ad una caduta dalle scale.
-Scommetto che le cadute gli siano sempre state fatali! – esclamò mentre Velia rideva come una matta. Era la prima volta che confidava a qualcuna la sua avventura d’amore: possibile che la stesse raccontando come una barzelletta?
-Anche per me il primo bacio è stato indimenticabile – sospirò Velia – era un compagno di classe, mi batteva il cuore quando mi trasportava sulla canna della bici. Che oca! Siamo ruzzolati nell’erba e là mi ha toccato sotto alle gonne baciandomi …
Le donne risero euforiche. Il pomeriggio stava diventando piccante. Le ondate di caldo scemavano, il ronzio dei ventilatori faceva da colonna sonora ai racconti che si susseguirono, le cicale si acquietarono esauste con la gola secca.
-A proposito, ti andrebbe un goccetto di limoncello fresco fresco? – chiese ad un tratto Ghitta pensando all’unico liquore disponibile in frigo. Lo gustarono in bicchierini di cristallo sfaccettato dai riflessi iridescenti.
-E poi come andò a finire?
-Andò a finire che me ne tornai a casa con Gino e lo dimenticai!
Velia le aveva raccontato di quella volta che, durante una vacanza sulla costiera amalfitana, aveva conosciuto un pescatore del luogo. Tra gli scogli di una spiaggetta solitaria e le fronde degli alberi di limone che profumavano l’aria, si era consumata la passione, mentre Gino, pover’anima, dormiva della grossa nella calura del pomeriggio. Ghitta s’immaginò la scena: un groviglio di carne abbronzata e unta di olio solare, i piedi avvinghiati e sporchi di granelli di sabbia che si allungavano sulla risacca, in fondo il turchese dell’acqua punteggiato di vele bianche. Aveva negli occhi la scena del film “Da qui all’eternità”. Velia doveva essere stata una bella donna formosa, con capelli mori ed occhi sfrontati. Si stupì di non provare riprovazione né scandalo nei riguardi dell’infedeltà di Velia: era il modo naturale con cui la donna raccontava il tradimento o le conseguenze di cabernet, spinello, limoncello che si facevano sentire?
-Ma tuo marito non si accorse mai di nulla?
Velia sembrava un torrente in piena: – Era così buono e ignaro! Mi voleva un bene dell’anima!
Non era il primo amore, neanche il secondo, non fu l’ultimo. Uno scapolone, figlio di amici di famiglia, rimasto orfano della madre ultraottuagenaria. Ricco e di bell’aspetto Gino, pover’anima, perse la testa per la moretta turbolenta che vendeva scarpe in un negozio del centro.
-Facevo la commessa e lui veniva a comprare le scarpe … mocassini i preferiti … mi accorsi che mi faceva il filo quando giunse a quota venticinque nel giro di due mesi. A cosa gli servono tutte quelle scarpe, mi chiesi e allora capii. Andavo per la trentina e non avevo ancora trovato la mia anima gemella. Lui era più anziano di me, sai. Tutto sommato un bell’uomo, con un’ottima posizione … lo sposai altrimenti avrebbe svuotato il negozio dilapidando l’eredità. Comprammo l’appartamento in questo stabile e poco dopo nacque Maddalena.
-Non hai mai provato colpa o rimorso?
Velia la guardò con stupore: – Mai! Gli volevo bene, pover’anima, al mio Gino, non gli facevo mancare nulla, ci siamo divertiti … finché era in vita quella tiranna di mia suocera, pace all’anima sua ma sta bene dove sta! Gino conduceva una vita da eremita, tutti casa, chiesa e posto in banca … grigio dai capelli alla punta delle scarpe. Bazzicava casa mia perché era amico di mio fratello che lavorava nella stessa filiale … mi sbirciava di sottecchi, lo sapevo, ma era triste e silenzioso! Poi improvvisamente alla vegliarda venne un colpo. Gino cominciò a venire al negozio col lutto al braccio. Il resto lo sai. Dopo il matrimonio lo convinsi a vestire sportivo, con colori sgargianti, a vendere la bicocca della madre che fruttò un bel gruzzolo perché stava in un terreno lottizzato per l’autostrada … la vecchia comunque gli lasciò una fortuna perché era spilorcia ed io ereditai una bella pacca di quadri, gioielli, pellicce, argenteria. Ho venduto tutto!
Ghitta spalancò tanto d’occhi. Aveva una passione per i gioielli, specialmente per le collane di perle.
-Con la liquidazione mi sono concessa di comprare il filo di akoia … sono della migliore qualità giapponese ed anche questo … – e mostrò l’orologio d’oro al polso. Tutti i gioielli della matrigna erano andati a Carlo, di sua madre conservava solamente la fede nuziale ed un paio di orecchini di granato.
-Non li porto perché non ho i lobi forati … mio padre non fu generoso con nessuno …
-Ho venduto le pellicce perché non sopporto portare pelli di animali morti sulle spalle ed erano tutte tarmate … oro e argento non mi piacciono, preferisco i monili etnici, moderni … andavo pazza per gli orecchini di plastica degli anni settanta, ti ricordi? Più erano falsi e voluminosi e più mi piacevano! Maddalena me ne fa una colpa perché le sarebbe piaciuto avere qualche gioiello antico, di famiglia. Invece si dovrà accontentare di ereditare i quadri, quelli sì sono di valore. Mio suocero era mercante d’arte con il pallino del collezionismo. Forse li hai visti a casa mia? Valgono una fortuna! Anch’io mi diletto di pittura, sai?
-Io non ci capisco un’acca – ammise Ghitta – i miei sono copie, stampe o croste che ho comprato nei viaggi, niente di prezioso.
-Eppure hai buongusto! – esclamò Velia. Barcollando si alzò: – Ho il culo quadrato … – e fiutò le pareti in cui campeggiavano alcune marine, nature morte e paesaggi. Ghitta rimase sprofondata nella poltrona, gambe fiacche, testa leggera. Le parve di ripercorrere i viaggi che l’avevano portata a spasso per l’Europa, durante le interminabili vacanze estive.
“Tre buone ragioni per fare l’insegnante: giugno, luglio, agosto”. A Madera aveva acquistato una veduta dell’oceano in tempesta, i campi di lavanda sotto il sole della Provenza erano accanto ad una riproduzione dei girasoli di Van Gogh, comperata al museo di Amsterdam, in un angolino aveva appeso uno scorcio di campagna inglese con cottage e rose rampicanti, una serie di cartoline raffiguranti costumi etnici slovacchi incorniciate accanto a piccole miniature francesi che mostravano pastorelle, cortei di oche, damine di altri tempi.
-Ne ho altri in studio e in camera, accomodati pure …
Velia entrò in camera da letto: un insieme di mobili chiari, di taglio moderno, sopra il letto la riproduzione di un’icona polacca della Vergine nera. Quelli dello studio li conosceva: due stampe di cartelloni pubblicitari della belle époque, un olio di misure considerevoli che mostrava una ballerina di flamenco con tanto di nacchere, pettine e strascico ricciuto, alcuni ventagli cinesi,disegni di battelli sull’acqua.
-Li ho scovati in un negozietto di Amburgo – ricordò Ghitta – non sono antichi, vero?
-Molto originali – ribatté Velia – hai viaggiato molto a quanto pare!
-Non mi lamento – sospirò Ghitta – avendo tempo a disposizione ho preferito viaggiare e visitare l’Europa. L’Italia la conoscevo già perché mio padre … era professore di lettere, non mi fece mai mancare un’estate a spasso fra musei e pinacoteche del nostro bel Paese. Da grande, non amando il mare né la montagna, ma detestando soprattutto l’idea di restare ferma in un posto a lungo, ho viaggiato … in treno, aereo, perfino in bicicletta!
Velia allocchì: – Dai, racconta! In bicicletta? Chissà che avventure! E che culo che ti sei fatta!
La crudezza delle parole della donna la colpiva; lei non aveva mai osato se non un solenne “vaffanculo”, una volta, all’indirizzo della matrigna, ma sottovoce.
-Ho percorso le rotte ciclabili in Baviera, in Austria e in Olanda … prima raggiungevo il luogo con il treno e poi in sella, pernottando lungo il tragitto in locande. Ci seguiva un furgoncino con i bagagli.
-Non eri sola perciò?
-No, mi aggregavo a comitive di appassionati di bici, gruppi organizzati, donne, uomini, qualche volta anche bambini. Li vedi i miei polpacci? Frutto delle pedalate.
Velia sbirciò le sue caviglie, salsicciotti di carne, non osò risalire lungo la tunica.
-E per quanto riguarda il c … cioè le terga – continuò Ghitta ridendo – calzoncini rinforzati e tanti impacchi di arnica.
-Non ti è mai capitato nulla di curioso o speziato?
Gli aggettivi di Velia alludevano a qualcosa di piccante e malizioso, ma non era solamente questo che anziché scandalizzare spinse Ghitta a confidarle cose della vita apparentemente liscia come un mare d’olio. Si convinse che la sua ospite di Ferragosto le ispirava fiducia nonostante l’apparenza svagata; la capisse benché le loro vite scorressero su binari diametralmente opposti; avesse il potere di cavare segreti e confessioni che mai avrebbe pensato di rivelare. Si sentì a proprio agio quando le raccontò di come aveva conosciuto il ciclista olandese. Il viaggio era iniziato sotto gli auspici più neri: all’epoca Ghitta aveva venticinque anni, una laurea in matematica in tasca; dieci anni erano trascorsi dal bacio del signor Franco e lei non aveva avuto occasioni di intrecciare relazioni sentimentali, dacché, tornata in seno alla famiglia, aveva conosciuto solamente dolori e sacrifici. La convivenza con la matrigna si rivelò fin dall’inizio tormentata: la donna trattò Ghitta con eccessiva severità spingendola a ribellarsi e ad inasprire il carattere. C’era un fratellastro con cui condividere la casa, più giovane, imbelle e succube della tirannia della madre. Carlo crebbe capriccioso e malaticcio, centro di gravità dell’amore materno, sfidò la sorellastra con le armi della simulazione e dell’ipocrisia. Se capitavano guai, la prima ad andarci di mezzo era Ghitta; non era possibile tenere nascoste vicende che la riguardassero perché Carlo spiattellava tutto alla madre. Carlo soffrì di gelosia nei confronti di Ghitta, per timore di perdere l’affetto della madre e senza rendersi conto di quanto poco ci tenesse la sorellastra a farsi amare da lei. Trascorsero mesi di guerriglia domestica finché la matrigna, che teneva salde le redini sul collo del marito, non lo convinse che la soluzione migliore per tutti fosse quella di mandare Ghitta in collegio per finire il liceo, dal momento che su Carlo convergevano le forze e le preoccupazioni maggiori. Il padre di Ghitta accettò. Cessò la devozione di Ghitta verso di lui. Si sentì sacrificata alla volontà della donna che, prendendo il posto di sua madre, spadroneggiava in casa e nel cuore del marito. La vita del collegio, scandita da regole rigorose, non fece altro che acuire, assieme alla solitudine e all’amarezza di aver perduto gli affetti familiari, le asperità del carattere di Ghitta. Diventò più determinata nel perseguire un obiettivo, mise a tacere i sussulti del cuore. Senza timidezza imparò ad affrontare i problemi imponendosi una linea di raziocinio freddo e calcolato, si circondò di pochissime amicizie fra le ragazze che frequentavano il collegio. Comunque non furono mai relazioni profonde né di mero pettegolezzo. Si fece rispettare senza che le altre la temessero ed apprezzare senza che qualcuno la invidiasse nonostante fosse un’alunna tra le migliori.
-Mi convinsi che papà era un debole nonostante i suoi modi autoritari. Chi comandava in casa era lei … l’Odiata che a poco a poco gli instillò dubbi su di me, sulle mie capacità, addirittura sulla mia moralità. Ho nutrito il sospetto che sapesse dell’episodio del signor Franco, come avesse fatto a scoprirlo sarà un mistero per sempre …
Alla fine del liceo in collegio, tornò a casa e s’iscrisse alla facoltà di matematica contravvenendo a quanto in famiglia avessero programmato.
-Lei avrebbe preferito che mi trovassi un impiego, papà invece mi vedeva già con tocco, toga e codice in mano. Li scontentai entrambi. La matematica era il mio pallino. In tempo debito mi laureai e vinsi subito una cattedra alle scuole superiori, avevo ventiquattro anni.
Non rimase un giorno di più in casa, si cercò due stanzette in affitto e se ne andò. Qualche mese più tardi suo padre morì. L’estate seguente decise di intraprendere un viaggio in Olanda.
-Sono stata appassionata di bicicletta in gioventù. Come avrei fatto senza la mia Bottecchia, già ai tempi dell’università e poi per lavorare … non ho preso la patente. Allora cominciava a diffondersi il turismo sulle due ruote, per pochi o incoscienti, come disse la mia cara matrigna. Mi aggregai ad una comitiva coordinata dall’agenzia Scatto, quella di piazza Marconi, sai? Erano all’avanguardia negli anni sessanta. Un bel giro in Olanda, tra mulini e tulipani; raggiungemmo la meta in treno e c’incontrammo con un’altra comitiva di olandesi, in tutto una quindicina di persone. A tappe in gemellaggio ciclistico, come il giro d’Italia …
Il percorso si snodava lungo interminabili strade, fiancheggiate da distese di campi di patate e barbabietole, sotto le nuvole, la pioggia, il sole.
-Si pernottava nei mulini o in locande. Un’esperienza indimenticabile. Sento ancora nelle orecchie il fruscio delle pale che macinavano, l’odore della farina, la ruvidezza dei sacchi di iuta …
Nel gruppo olandese che si dimostrava reticente a mescolarsi a quello italiano spiccò la figura di Rijk Brouwer.
-Entrambi conoscevamo bene l’inglese e comunicammo fra noi e con gli altri che lo masticavano a malapena. Era studente di medicina, la stessa età e una storia familiare abbastanza simile alla mia, alla rovescia, con un patrigno che vessava madre e figli.
Vissero gomito a gomito, pedalando per venti giorni, avendo tempo e modo per scambiare idee ed impressioni.
-All’inizio non mi piaceva … non fu per me il classico colpo di fulmine! Non era neanche bello!
Alto, magro e dinoccolato, Rijk pedalava in modo impeccabile, mentre con i piedi per terra inciampava spesso e faceva cadere le cose.
-Aveva un naso lungo, qualche brufolo e le orecchie un po’ a sventola … credo che per lui rappresentassi la dea della bellezza perché mi fissava con occhi adoranti … mi lusingai.
A metà del viaggio successe un imprevisto.
-Una donna del nostro gruppo si ammalò. Forse gli sforzi delle pedalate o un’infreddatura di quell’agosto piovoso, comunque sia, Rijk sfoderò la propria competenza medica. Si trasformò sotto ai miei occhi. Con dolcezza e fermezza fece in modo da convincere, italiani e olandesi, a fermarsi per due giorni nella locanda in cui eravamo ospiti. Si prodigò affinché la donna fosse visitata dal medico del villaggio il quale si limitò a confermare la diagnosi del giovane dottorando: un’infezione alle vie urinarie da risolvere con una buona dose di antibiotici e riposo assoluto. A quel punto, per non ostacolare il normale svolgimento del viaggio, Rijk brigò, via telefono e telegrammi, finché la donna fu trasferita in una grande città e da lì rimpatriata.
Ripresero il viaggio e tutti festeggiarono Rijk come un eroe, anche coloro che avevano mugugnato per i due giorni di sosta forzata.
-Lo vidi con occhi diversi. Ricambiai i suoi sguardi. Ci scambiammo il primo bacio sotto alle pale di un vecchio mulino.
Non fu difficile nascondere agli altri l’attrazione che li coinvolgeva. Rijk e Ghitta erano la coppia più giovane della comitiva. Tutti gli altri, in gran parte accoppiati, si disinteressavano a quanto succedeva; erano impegnati nello sforzo quotidiano del pedale, incantati dalla squisitezza del paesaggio vivevano di giorno sulle strade sotto al sole o alla pioggia, fianco a fianco; di notte nei mulini c’era promiscuità nella sistemazione che prevedeva giacigli provvisori come i bivacchi delle baite alpine. Ciò che di inevitabile doveva accadere, si svolse in una locanda, durante l’ultima notte di tappa. L’indomani un treno caricò tutti con le loro bici.
-Durante il viaggio io e Rijk ci scambiammo indirizzo e promesse … tante promesse che però non si avverarono mai.
-E perché? – chiese Velia con due lacrimucce nell’angolo dell’occhio.
Ghitta scosse la testa: – Gli scrissi un paio di volte e lui mi telefonò per dirmi che la tesi di laurea lo assorbiva talmente che non gli consentiva nemmeno di farsi un giro in bicicletta … io iniziai un anno scolastico molto duro, cominciarono le contestazioni studentesche, il mio preside era un uomo impossibile … ed infine la mia matrigna si ammalò gravemente.
Carlo si dimostrò quell’inetto ed insipiente che era. Si rivolse alla sorella supplicandola di accudire alla madre che languiva in letti d’ospedale finché non fu dimessa con la diagnosi di incurabilità.
-Rijk si fece vivo per avvertirmi che in estate avrebbe discusso la tesi e che se volevo assistere non avrei fatto altro che saltare su un treno e raggiungerlo. La matrigna si aggravò proprio in quei giorni, tememmo per il peggio, poi migliorò. A quei tempi non esistevano le cooperative di soccorso ai malati terminali. Bisognava arrangiarsi di più e da soli. Imparai a praticarle le iniezioni di morfina … per circa sei mesi ritornai ad abitare nella casa paterna. Al telefono Rijk ascoltava la mia angoscia, mi rincuorava ma mi diceva pure che l’università gli aveva proposto un posto di dottorato in collaborazione con un’organizzazione sanitaria che si occupava di malattie tropicali.
Le disse che sarebbe partito per il Togo dove avrebbe svolto il dottorato di specializzazione. Una soluzione che soddisfaceva la propria passione per la medicina e tutte le altre faccende riguardanti la difficile convivenza familiare.
-Cominciai a pensare che non mi interessava che Rijk partisse per l’Africa e che forse non ci saremmo più sentiti. Ero entrata in un incubo di abulia e depressione che andava di pari passo con la malattia dell’Odiata. Mi pareva di avvertire i suoi stessi sintomi … cominciai a cadere nella spirale di sedativi ed antidepressivi, anch’io che li avevo aborriti …
A scuola le cose si complicarono: assemblee, scioperi, la nuova generazione contestava i principi e le vecchie regole di un mondo che stava rapidamente cambiando. Se da un lato Ghitta riconosceva le rivendicazioni legittime dell’onda studentesca, dall’altro provò insofferenza ed ostilità verso chi, avendo avuto la fortuna di nascere in anni diversi dai suoi, riusciva ad ottenere ciò che a lei era stato negato: libertà di esprimere i propri sentimenti alla luce del sole, fantasia e leggerezza, scelta di forme di vita sciolte da legami e vincoli, intraprendenza e fiducia in un mondo migliore. Nonostante fosse consapevole del fatto che anche lei era stata un’antesignana della contestazione, divenne implacabile con i propri studenti; conosciuta come la professoressa più intransigente si scontrò in molte occasioni con i più riottosi.
-Non risparmiavo insufficienze, pretendevo il massimo rigore nello studio … quei giovani non capivano di cadere in trappola … poco dopo il movimento studentesco franò nelle frange del terrorismo bieco o nel gorgo delle droghe che fagocitò molti di essi. Io invece continuavo a battermi non per una scuola nozionistica e mnemonica, ma per ottenere, attraverso lo studio e la cultura, il rispetto di se stessi e la libertà di giudizio. E non sta scritto da nessuna parte che ciò non comporti disciplina e rigore, anche sacrificio …
-Ora ricordo … Maddalena mi raccontava che tu eri molto esigente …
-E detestata! – esclamò Ghitta – pensa che un giorno trovai le ruote della mia Bottecchia sgonfie, qualcuno le aveva tagliate. Vedendole mi sembrò che anche con Rijk si fosse tagliato qualcosa. Per sempre. Lui partì per il Togo. Ricevetti alcune cartoline, poi nulla. L’Odiata morì allo scadere dell’anno scolastico. Quell’estate decisi di trascorrerla in Inghilterra assieme alla collega di inglese che mi invitò nel suo cottage nello Yorkshire … ad Harrogate … là ci sono le terme. Avevo estremamente necessità di riposare, raccogliere le idee, staccarmi definitivamente dai legami con vivi e morti, archiviare il capitolo Olanda.
Ci riuscì con la sua tenace determinazione.
-E dopo Rijk?
Alla prossima ed ultima parte!
