L’ospite di Ferragosto (Quarta ed ultima Parte)
Ghitta lasciò vagare lo sguardo: – Niente o perlomeno nessuno che valga la pena di ricordare! Solo scuola e viaggi in estate, qualche concerto e tanto teatro … sai, mi regalo ogni anno l’abbonamento al Petrolini, anzi, il mese prossimo è già tempo di prenotazioni, che ne diresti?
-Se ti dicessi che non ho mai messo piede in un teatro, mi crederesti? – chiese Velia divertita – non ho fatto le scuole alte come te!
-Non bisogna essere degli intellettuali per andare a teatro – ribatté Ghitta.
-Andavo al cine, quello sì! Con le amiche e poi con i ragazzi … sai quante ne potrebbero raccontare le poltroncine dello Smeraldo …Oggi lo Smeraldo è stato smantellato per far posto ad un supermercato, ma ti assicuro che ai miei tempi era frequentatissimo. Ci andavo tutte le domeniche, nonostante abitassi in campagna e fosse difficile far coincidere gli orari delle corriere con quelli degli spettacoli. Spesso mi fermavo a dormire dalle amiche. I miei erano molto libertari: mamma indulgente e papà tutto preso dai suoi animali imbalsamati. Al cinema incontravamo i ragazzi … aspetta che mi vengono in mente! Il Paolo Santoni, Corrado Minelli, il Vespa! Oh non credere che fossi una ragazza di facili costumi! Qualche bacetto, una toccatina ma niente di più … io e le mie amiche ci facevamo rispettare!
-E quello che ti portava sulla canna della bici?
-Ah, il mio primo bacio! Lo persi di vista perché con la famiglia si trasferì in un’altra città nel corso dell’anno scolastico … si era in prima superiore, se non ricordo male …
Velia non fu una studentessa promettente. Arrancava in tutte le materie fin dalle elementari. Si iscrisse alle commerciali per diventare segretaria d’azienda, ma non terminò gli studi.
-Poco male! – raccontò – i miei non ne fecero un dramma anche perché mio fratello e mia sorella davano loro molta soddisfazione, lui ragioniere e lei, l’unica in famiglia a laurearsi sulle orme di papà … ora la mia sorellona fa l’anatomopatologa all’ospedale.
Non sfuggì a Ghitta il tono d’orgoglio con il quale Velia descriveva i familiari.
-Io mi accontentai, prima di un posto come commessa in una pasticceria, poi in un supermercato, infine nel negozio di scarpe dove incontrai Gino, pover’anima. Non ci sono mai state beghe in famiglia … sono molto legata ai miei fratelli benché non ci vediamo spesso. E tu, che mi racconti dei tuoi?
-Mio padre, come dicevo, era professore di italiano. Mia madre morì che ero piccola. Sono cresciuta con le tate che mio padre assumeva, qualche mese trascorso con zia Carlotta, una delle sorelle di papà che viveva in una villa di campagna, ogni benedetta estate in giro per l’Italia a musei ed infine, al mio quindicesimo compleanno mio padre mi fece il regalo più gradito che potessi desiderare: una matrigna e un fratellastro!
-Proprio come nei romanzi – sottolineò Velia cui era venuta una gran sete – ce la facciamo una bella fetta di cocomero?
Ghitta andò in cucina, nel vassoio del cocomero aggiunse due grappoli di uva. Guardò dalla finestra: si profilavano dei nuvoloni poco rassicuranti: – Chissà che non scoppi un bel temporale che ci rinfresca! – esclamò tornando in tinello col vassoio. Il cielo, da bianco lattiginoso do afa, si era ricoperto di cirri e cumuli che sfrangiavano scuri e bassi incombendo sulle chiome degli aceri e delle acacie inquadrati nel balcone spalancato. Spirava un’arietta che annunciava la pioggia, non ancora fresca ma foriera del refrigerio atteso ormai da più di un mese.
-E’ stato il mese di agosto più caldo che io ricordi – osservò Ghitta spegnendo i ventilatori e occhieggiando se il terrazzo fosse bagnato. Velia addentò un fetta di cocomero ed assentì. Nella stanza in penombra l’orologio a carillon trillò sei volte. Stava così bene accoccolata nella poltrona con il fresco della polpa tra i denti, che non si sarebbe alzata mai.
“Vorrei che questo Ferragosto non finisse – pensò mentre Ghitta, uscita sul balcone, diede una sistematina ai vasi dei gerani esposti sulla balaustra. La sua figuretta disegnata contro il verde degli alberi si confondeva con il colore dei fiori. Ricordò l’amore con cui sua madre trattava piante e fiori, d’intensità pari se non superiore a quello del padre per gli esemplari che imbalsamava.
“Oggi non potevo desiderare compleanno migliore” pensò Ghitta mentre spiccava alcune foglioline secche. Non aveva voluto che Velia lo sapesse. Non era il caso. Niente torte o candeline. Solo un mazzo di rose. Un giorno come un altro. Da quanto non lo festeggiava in compagnia? – Vediamo un po’. L’ultimo risale a … mio Dio, più di vent’anni fa. Ad Harrogate con Helen e suo marito. Mi sembra ieri, poi più nulla, anche perché non c’è nulla da festeggiare. Odio i compleanni!
Rientrò perché aveva sentito qualche goccia sul braccio. Si udì un brontolio cupo al di sopra delle nuvole.
-Meglio accostare i vetri – disse accendendo un lampada dalla luce soffusa che abbracciò l’angolo delle poltrone. Si sistemò nella poltrona contenta di assaggiare una fresca fetta di cocomero e per il temporale in arrivo.
-Cosa dicevi a proposito del regalo al tuo compleanno? – la spronò Velia.
-Ah! L’Odiata e Carlo. Che dire? L’una mi avvelenò la vita e l’altro un pusillanime, neghittoso …
-Frena! Non ho mica fatto le scuole alte io!
-Vigliacco e buono a nulla – ribatté Ghitta più divertita che amareggiata dal ricordo di Carlo – in vita sua non ha studiato né lavorato, sfruttando la ricchezza che gli proveniva dalla famiglia di sua madre.
-Beato lui!
-Ah certo! Finché non ha inteso sfruttare la mia di ricchezza! Siamo stati ai ferri corti per anni a causa dell’eredità che avrebbe dovuto spettarmi, i miei erano possidenti. Carlo è stato spalleggiato dall’Odiata finché non è morta. Quello che non gli perdonerò mai è il fatto che se n’è infischiato quando si ammalò scaricandola su di me. Non sai quanto sia spiacevole accudire giorno e notte chi si è odiato a lungo!
-Ed ora? ‘sta ameba di uomo, dov’è, cosa fa?
-Dio solo sa cosa ha visto in lui quella vanesia di donna che ha sposato … abitano in Liguria. L’Odiata proveniva da Imperia. Lui e la moglie vivono nella casa ereditata da lei. So che fa il mediatore. Non ci vediamo e non ci sentiamo. Solo la classica cartolina natalizia che lui si ostina a spedirmi e che io puntualmente straccio in mille pezzi.
Velia cominciò a ridacchiare: – Perché non gli facciamo uno scherzo? Chiediamo al 181 il numero telefonico e gli schiaffiamo una telefonata di parolacce … ne conosco una bella sfilza!
Ghitta rimase di stucco per qualche secondo. A lei un’idea del genere non sarebbe mai balenata in testa. – Non dico parolacce …
-Male hai fatto! Una parolaccia è come uno starnuto o una scorreggia, una liberazione. Quando ci vuole … altrimenti si scoppia! Io sono un’esperta … Maddalena mi sgrida se me lo sente fare, ma ora non c’è e mi pare il caso adatto.
Ghitta espresse titubanza dicendo che Carlo avrebbe facilmente potuto risalire al suo numero telefonico.
-Allora useremo il mio cellulare – disse Velia estraendo dalla borsettina un palmare nuovo fiammante – l’ultimo regalo di Maddalena. Non riconoscerà la mia voce ed anche fosse, me ne infischio … Dai, proviamo!
Ghitta si decise dicendo che il numero di Carlo era scritto nell’agenda.
-Può essere cambiato. Ragione per cui è meglio chiamare il 181 – insistette Velia – l’indirizzo lo sai, no? Il cognome?
-Pollastrini Carlo, viale Mazzini 57, se non ricordo male.
Il 181 fornì il numero telefonico e senza indugi Velia lo digitò sullo schermo, accostando il palmare all’orecchio di Ghitta perché ne riconoscesse la voce. Rispose una donna.
-Posso parlare col signor Pollastrini? Sì, lo so che oggi è festa … ma sono a conoscenza di un affare che gli può interessare … sì, una mediazione coi fiocchi! Grazie, molto gentile. – mise la mano sul telefono – che palle! Sarà la moglie … – rimase in silenzio per un secondo, poi mitragliò: – Faccia di m…. tuono di sc…….., supreme di r…., vaffanculo te e quella t…. di tua moglie, scolo di sb… ha riattaccato! Accidenti che vigliacco, di solito stanno di più a sentire, vogliono sapere chi parla, soprattutto se sentono una voce femminile, secondo me li eccita!
Ghitta si riprese dalla sequela di parolacce e chiese con stupore: – Quindi non sei nuova a questi scherzi?
Velia ammise di ricorrervi spesso, quando si sentiva in vena o in momenti bui e malinconici: – Sai, è eccitante! Ti scarichi un po’ di adrenalina, è come fare all’amore, più conturbante perché non conosci chi ti risponde, allora te lo immagini come vuoi tu, giovane, bello, affascinante, si ritorna giovani, ti dimentichi di avere 70 anni e di non riuscire a provare nessuna delle sensazioni che la giovinezza ti ha regalato e che la vecchiaia e la solitudine hanno cancellato. Mi sento ancora viva, cosa ci posso fare?
Ghitta si adombrò: le ultime parole di Velia sembravano fatte apposta per chi avesse rinunciato da sempre ad essere viva. Mai uno sguardo, una carezza, un fremito sulla pelle, l’innamoramento breve, bruciante, ma che ti fa scorrere il sangue nelle vene, palpitare la gola, stringere la bocca dello stomaco, provare quel guizzo segreto laggiù. Arrossì improvvisamente nel ricordare le volte che le mani erano scese laggiù, timide e frenetiche, poi sapienti e lente per assaporare più a lungo il piacere di essere donna. Quel piacere provato nel lontanissimo agosto olandese e almeno tre o quattro volte nell’arco della vita.
-Troppo poco – stava dicendo Velia come se leggesse nei suoi pensieri – noi donne, parlo della mia generazione, abbiamo espresso la nostra, come si dice, sessualità troppo poco. Abbiamo inneggiato al libero amore, ma alla fine siamo sempre state al servizio di qualcuno, mai per noi stesse.
-Credo che le ragazze di oggi siano più libere e consapevoli – osservò Ghitta riprendendo la pacatezza abituale.
-Sfido io, gli abbiamo spianato la strada! Chi l’ha cominciata la rivoluzione sessuale? C’eri negli anni sessanta o eri così distratta da non accorgerti?
Ghitta impiegò alcuni minuti prima di rispondere: -Mi stai mettendo a nudo, sai? Non è facile, né piacevole, le l’assicuro! Velia incassò il colpo e tacque. Il viso di Ghitta le fece impressione. Fino a quel momento sorridente e rilassato si contrasse in una smorfia di dolore che l’invecchiò di cento anni.
“Le ho fatto male!” pensò “mannaggia a me e alla mia linguaccia! poi lentamente scandì: – Un bel tacer non fu mai scritto! Scusami tanto! Non intendevo offenderti.
Ghitta portò una mano a nascondere la bocca che tremava, cercando di far sorridere gli occhi. Non ci riuscì. Scoppiò in lacrime proprio nel momento in cui le cateratte del cielo si aprirono e uno scroscio di acqua e vento spalancò la finestra. Le due donne balzarono in piedi e si affrettarono a chiudere le imposte. La pioggia batteva con violenza schioccando granelli di grandine sui vetri. Rimasero alla finestra a guardare le chiome squassate dal vento, il cielo di pece, il consumarsi di quel giorno di Ferragosto. Ad un tratto si volsero a guardarsi: – Porca troia, vaffanculo, merda! Scusa, non ne conosco altre, ma imparerò!
Scoppiarono a ridere.
-Gino, pover’anima, diceva che ridere fa bene alla salute – disse Velia tra un sussulto e l’altro.
-Anche l’Odiata lo diceva – replicò Ghitta che piangeva per il gran ridere – ma non glielo vidi mai fare!
Ritornarono alle poltrone. Il palmare cominciò a fremere, un messaggio della figlia.
-E’ in vacanza. Vuole sapere come me la passo. Ora le rispondo. Cominciò a digitare rapidamente con un sorriso soddisfatto. Ghitta avvertì improvvisamente di essere affamata: – Non senti anche tu un languorino? Che ne dici di ordinare due pizze? A due isolati c’è la pizzeria Aladino che fa servizio a domicilio.
-La conosco – rispose Velia – mia figlia mi ci porta spesso … allora per me una ghiottona con tanto peperoncino, mi piace da morire.
Si alzò con un po’ di fatica: – Ora però devo tornare dai miei gattini. Va bene averli lasciati da soli, chissà cosa avranno combinato quei diavoli!
Ghitta ne approfittò per telefonare alla pizzeria. Poi sparecchiò la tavola del mezzogiorno, caricò la lavastoviglie e dispose sulla tavola due tovagliette di plastica. Si affacciò alla finestra. Il peggio era passato. Sgocciolava ancora con minor intensità, il vento aveva fatto cadere le foglie e l’asfalto del cortile sprigionava odore di ozono. I tuoni si allontanavano ed il cielo impallidì.
“Mi sono trovata proprio bene con Velia, ti fa venire il buonumore. E dire che l’ho avuta per dodici anni sotto ai piedi senza sapere quanto fosse simpatica e comprensiva! Proprio una vedova allegra!
Rise felice di aver fatto una battuta spiritosa. Di solito non riusciva a capire le barzellette e i doppi sensi la infastidivano. Il marito di Helen era un esperto di gag. Chissà se le sparava ancora. Helen, dopo la pensione, era ritornata nello Yorkshire. Si sentivano al telefono: “Dovrò tornarci – pensò – magari l’estate prossima e proporrò a Velia di venire con me. Sono certa che Helen e Mark ci ospiteranno volentieri.
Il cottage era un paradiso immerso nella campagna inglese, bianco e giallo, ricoperto di rose che crescono rigogliose solo nello Yorkshire, simile a quello del quadretto nel tinello. Ad un tratto vide un fagotto di pelo scuro percorrere il cortile ed infilarsi nel cespuglio di ortensie.
“E’ la gatta del portinaio, non teme la pioggia, Che fa? Non ci sono topi qui e gli uccelli sono al coperto. Avrà voluto farsi una passeggiata, povera bestia. Anche loro soffrono il caldo con tutto quel pelo.
Un ombrello lucido di pioggia si agitò sotto ai suoi occhi. Poco dopo la gatta ricomparve sbucando dall’intrico di foglie ed ortensie, incontro al suo padrone. Il portinaio la raccolse e se la strinse al petto. Non riusciva a sentire ciò che le stava dicendo, certamente la rimproverava di essere sgattaiolata in giardino ad inzaccherarsi tutta. “O a buscarsi un malanno, visto che è vecchia ormai.
I gatti non le piacevano, ma un cane forse le avrebbe fatto compagnia. Il fox terrier di Helen era grazioso e divertente. “Sono impegnativi perché bisogna portarli a spasso, lavarli, ma danno un sacco di soddisfazioni. Se ne prendessi uno di piccola taglia? Le inserzioni sul giornale o mi potrei rivolgere al canile comunale. Ci penserò con calma!
Velia ritornò con due birre. Aveva cambiato nuovamente vestito: un caftano di lino bianco con disegni floreali azzurri, ingentilito da una serie di braccialetti tintinnanti e vistosi orecchini blu.
-Mi diverto a combinare assieme gioielli ed abbigliamento. Non amo l’oro, Maddalena lo sa e dai suoi viaggi mi porta monili di ogni tipo, questi bracciali sono berberi.
-Tua figlia è una grande viaggiatrice, al contrario di te – osservò Ghitta mentre si accomodavano nelle poltrone.
-Lo puoi ben dire! Per il momento lei e il marito non hanno figli e così hanno girato il mondo. Se lo possono permettere e fanno bene, dico io. Ora si trovano in Messico. A dirti la verità io non sono mai stata una giramondo; in famiglia non si usava andare in villeggiatura e bastavano i viaggi di papà, sarà che Maddalena abbia preso dal nonno? Bah! Con Gino ci siamo mossi qualche volta: la costiera amalfitana, la Sicilia, Roma Firenze Venezia, insomma le mete che fanno impazzire i turisti.
-Mai all’estero?
-Era contrario ai principi di Gino, pover’anima. Vedi l’Italia e hai visto tutto, mi ripeteva. Io mi tiravo indietro.
-Ma perché? E’ interessante viaggiare! Conoscere usi, costumi, paesaggi, persone …
Velia strizzò l’occhiolino malizioso: – Appunto! Me ne resi conto subito, ma ogni volta che conoscevo qualcosa di nuovo, mi innamoravo … capisci? Non volevo far torto al povero Gino, anima benedetta!
Ghitta ebbe un momento di perplessità e scandì le parole:
-Vuoi dire che ad ogni viaggio corrispondeva un uomo?
Con la testa Velia assentì e le brillarono gli occhi: – C’era di mezzo Maddalena pure! Povera stella! Mica potevo continuare, prima o poi l’avrebbe scopeto. Così ho deciso che era meglio non viaggiare.
Ghitta pensò che era molto strano non sentirsi scandalizzata. In altre occasioni avrebbe provato repulsione in quanto credeva nella lealtà e nella fedeltà, ma con Velia era diverso. Le sue parole erano così leggere che se avesse confessato un delitto, non ne sarebbe stata sconvolta.
-Non credere che mi penta di quanto ho fatto – stava ammettendo – volevo tanto bene al mio Gino, ma era più forte di me. Bastavano due occhi, una bocca, un po’ di muscoli ben distribuiti e … ci cascavo come una pera cotta! Ma dopo Venezia basta! E’ finita col gondoliere. Ho messo la testa a posto. Ora, dimmi cosa penserai di me?
-Penso che tu abbia vissuto in modo straordinario – rispose Ghitta – sei una persona schietta e naturale, hai fatto ciò che ti sentivi di fare … l’importante è che non abbia ferito tuo marito e tua figlia.
-Oh brava! E’ proprio quello che penso anch’io. Gino e Maddalena sono rimasti all’oscuro di tutto e non ho mai nutrito sensi di colpa. Accettavo il fatto per ciò che era. Quasi un bisogno del corpo, come il cibo, il sonno, il respiro. Mi sono rimasti bei ricordi: il pescatore di Amalfi, il turista di Agrigento, il gondoliere di Venezia … anche se non ho più viaggiato. Sei la prima persona cui confido queste cose!
– Oggi è successo che ti ho parlato di Rijk, dell’Odiata e di altro. Neanche con la mia migliore amica mi ero spinta a tanto …
-Forse perché non abbiamo avuto nessuno cui confidare i nostri segretucci? – chiese Velia – di amiche ne ho avute tante, ma a nessuna avrei confessato quello che oggi hai saputo. Non per vergogna, semplicemente nessuna avrebbe capito.
-Io invece di amiche ne ho poche – replicò Ghitta – le dita di una mano sono troppe. La migliore vive in Inghilterra e forse la considero così perché mi sta lontana; l’altra, la più cara, Laura è morta tanti anni fa, ma nemmeno lei conosceva la storia di Rijk.
-Era destino che io e te ci incontrassimo oggi! – esclamò Velia con foga – il 15 agosto 20…, ce lo segniamo sul calendario. L’inizio di una brillante amicizia! Ora che ne diresti di stappare le birre, ci vuole un brindisi!
In quel momento suonò il campanello. Un ragazzotto in tuta da ginnastica e casco salì le scale fino al secondo piano. Nell’appartamento percepì odore d’erba. Consegnò le pizze: una ghiottona e una vegetariana. Prese una lauta mancia e se ne andò. La sera tardi, agli amici raccontò che gliel’avevano data due vecchiette buffe e dall’aria “fumata”, col bicchiere di birra in mano e un gran sorriso stampato sulla faccia.
FINE
