L’ antenata della mascherina
Sembra il costume da mettere per simulare l’aspetto di un buffo personaggio dei cartoni animati. Un piccione parlante o un pollo saccente. Invece è una Maschera del Medico della Peste, indossata da un dottore per avvicinarsi ai pazienti infetti tra il 1650 e il 1750 (attualmente conservata al Deutsches Historisches Museum). E’ da questo curioso capo d’abbigliamento che discendono le mascherine, gli occhiali e i copricapi usa e getta che proteggono gli odierni medici impegnati nella lotta al Coronavirus.
L’esigenza di proteggere chi per mestiere doveva avvicinarsi ai malati durante un’epidemia nasce già nel XIV secolo, ed è allora che vengono inventate queste strane cappe. L’abito del Medico della Peste – così era chiamato – era infatti uno dei simboli più riconoscibili della Morte Nera.
Ma com’era nel dettaglio e a cosa serviva davvero questa maschera?
Sulle sue origini sappiamo ben poco ma è noto che la figura del Medico della Peste era diffuso in tutta Europa già nel Medioevo e già allora i medici si proteggevano dalle numerose epidemie indossando abiti caratteristici e funzionali.
La maschera di cui stiamo parlando è simile a quelle della Commedia dell’Arte ma ha una storia più triste perché non era nata per portare il sorriso agli spettatori, bensì per difendere soprattutto la propria persona. Era dotata di un lungo becco adunco e generalmente veniva indossata con un lungo abito nero in tela cerata, un cappuccio, un mantello, guanti, occhiali e un bastone con cui toccare i malati. La maschera trasmetteva sia tristezza sia gioia, conferendo a coloro che la indossavano le sembianze di un uccello, un volatile che avrebbe protetto sotto le sue ali la città afflitta dal morbo.
Essa si diffuse particolarmente durante le prime epidemie di peste bubbonica che colpirono l’Europa fra il 1347 e il 1353, le quali sterminarono circa un terzo degli abitanti del continente. Il costume divenne popolare fra Roma e Venezia, ma la versione definitiva risale al ‘600 e si diffuse in Francia con le migliorie apportate del medico francese Charles de Lorme, testimone della peste veneziana del 1630, nonché medico di corte di Enrico IV, Luigi XIII, Luigi XIV, e pure della famiglia Medici di Firenze.
La maschera aveva lo scopo di proteggere i medici, questo è certo ma, ahimè, nessuno era a conoscenza dell’effettivo veicolo di diffusione della peste (per esempio la pulce dei ratti), o delle più elementari norme igieniche che invece, oggi adottiamo quotidianamente.
La scienza medica antica credeva nella dottrina miasmatico-umorale, teorizzata dai medici greci Ippocrate e Galeno, vissuti millenni prima degli eventi in questione e la cui parola nessuno osava mettere in discussione. Secondo tale disciplina, le malattie erano provocate dallo squilibrio degli umori del corpo, i quali sono sangue, flegma, bile gialla e bile nera.
Le malattie si sarebbero pertanto diffuse a causa dei miasmi dell’aria come escrementi riversati in strada, acqua stagnante o scarti di produzione, combinati ad eventi nefasti quali eruzioni, sfortunate congiunzioni astrali, inalazione di aria proveniente da corpi in putrefazione, acque paludose o altri fenomeni simili.
Il becco della maschera aveva dunque la funzione di proteggere da tali miasmi: al suo interno venivano inserite sostanze profumate come fiori secchi, lavanda, timo, mirra, ambra, foglie di menta, canfora, chiodi di garofano, aglio , polvere di carne di vipera o spugne imbevute di aceto: il loro aroma avrebbe dovuto ostacolare il contagio, impedendo la respirazione dei miasmi.
La maschera aveva anche una funzione simbolico-protettiva: al tempo erano in molti a pensare che la peste venisse trasmessa dagli uccelli, pertanto l’uso della maschera, realizzata a forma di lungo becco, era determinata dalla convinzione che la malattia, così come era stata acquisita, potesse essere espulsa dal paziente, trasferendola all’indumento.
Anche gli altri componenti del travestimento, come i guanti, il cappello (che serviva ad indicare a tutti la professione) e gli occhiali erano finalizzati a ridurre i contatti con l’aria emessa dall’appestato.
Addirittura, la scollatura dell’abito era nascosta dietro la maschera .
L’intero capo di vestiario veniva poi rivestito da una patina di grasso, che secondo ulteriori supposizioni avrebbe respinto la peste dal corpo del medico, oppure ancora una volta l’avrebbe allontanata dalla vittima. Ma l’ ipotesi più veritiera è che esso servisse per evitare che i fluidi corporei si attaccassero al mantello, in modo da proteggere la parti inferiore del corpo del cerusico dalle infezioni, e De Lorme al proposito aveva disegnato un abito dotato di un paio di pantaloni di pelle da indossare appositamente sotto al cappotto.
Infine, il medico era dotato di un lungo bastone la cui funzione era quella di poter esaminare il paziente senza toccarlo direttamente con le mani (seppure protette da un paio di guanti): con questo strumento egli poteva altresì indicare dove spostare i defunti o coloro che dovevano essere isolati.
Non ci è dato sapere quanto questo abito sia stato efficace, ma di certo sappiamo che il professor de Lorme visse fino alla veneranda età di novanta anni, un traguardo piuttosto considerevole per quei tempi, e che di certo non morì di peste!
Del resto, secondo gli antichi, i medici erano invulnerabili proprio grazie alla maschera che indossavano, come ci testimonia un componimento del XVII secolo:
«Le loro maschere hanno lenti di vetro
i loro becchi sono imbottiti di antidoti.
L’aria malsana non può far loro alcun male,
né li mette in allarme».
I medici lavoravano in proprio, ma venivano assunti dalle autorità dei villaggi e delle città quando scoppiava un’epidemia. Non avevano solo la funzione di assistere i malati, ma dovevano anche compilare il libro pubblico in cui venivano registrate le ultime volontà dei moribondi e i registri funebri per fornire una stima del numero dei morti; erano i soli a poter circolare liberamente per la città durante le epidemie, durante le quali era in vigore il coprifuoco con pena di morte. I medici avevano inoltre il compito di tramandare la memoria storica della popolazione, ricordando gli avvenimenti dell’epidemia. Ecco per esempio cosa scriveva il celebre Alvise Zen, medico a Venezia durante l’epidemia di peste del 1630, in una lettera a monsieur D’Audreville: «Eccellentissimo monsieur d’Audreville, vi racconterò quei terribili giorni solo perché sono convinto che senza memoria non c’è storia e che, per quanto amara, la verità è patrimonio comune».
All’epoca dell’epidemia che vide in azione il medico Alvise Zen, i malati venivano trasferiti al Lazzaretto Vecchio e i loro parenti venivano segregati in casa in quarantena. Il medico prestato alla storia ci racconta uno scenario apocalittico: «Chi gà morti in casa li buta zoso in barca”. Per le strade cresceva l’erba. Nessuno passava».
Un altro fatto sicuramente curioso è che, nonostante i medici di tutta Europa si vestissero in questo modo, il costume divenne particolarmente iconico in Italia, entrando a far parte della nostra cultura popolare. Diventò così una vera e propria maschera del Carnevale Veneziano: vista inizialmente come una semplice goliardata, divenne poi un’usanza e un monito dei terribili anni della peste, tanto che ad oggi, la Maschera del Medico della Peste è di uso comune nei corsi carnevaleschi, fondendo l’ombra della morte alla gioia dionisiaca della festa che precede la quaresima in un binomio che ricorda quello di èros e thànatos. In altre parole, essa rappresenta uno scongiuro dalla morte, un modo per farsi beffe dell’ultimo atto della nostra vita senza dimenticare il tragico passato delle pestilenze.
Sicuramente, questo peculiare abbigliamento non avrà certo fornito ai suoi tempi una reale protezione contro la malattia, ma per fortuna la medicina e la scienza hanno fatto grandi passi avanti nel corso dei secoli, in particolare modo a partire dal secondo dopoguerra mondiale.
Buona cosa questa … altrimenti al posto delle mascherine chirurgiche forse oggi indosseremmo tutti ancora una maschera dal lungo becco!