#25/11/2021

In questa pagina speciale sono raccolti i contributi letterari che hanno composto la Maratona Poetica organizzata dal Blog e dalla sua pagina Facebook in collaborazione con i gruppi Facebook Come l’increspatura di un’onda (di Marina Neri e Angela Scaglione), Rosso Relativo (di Carla Bisogno), Contame Raccogliamo Storie (di Ernesto Fiero e Pier Luigi Del Pinto) e dal Blog Contame.org.

In Italia, nel 2020 più di 49 donne ogni 100mila si sono rivolte al numero verde 1522 perché vittime di violenza. 

Nel 2019 erano state 27 ogni 100mila.

Nei primi otto mesi di quest’anno sono state uccise 75 donne.

Nel 2019 sono stati commessi 111 omicidi di donne (133 nel 2018).

Nell’84% dei casi l’omicidio è avvenuto in ambito domestico (da partner, da ex partner o altro parente)”. 

Lo afferma l’Istat.

Il 25 Novembre 2021 “Giornata Internazionale per l’eliminazione della violenza sulle donne”

deve essere sentita da tutti come una giornata di denuncia, di riflessione e di massima mobilitazione.

 

Stella

di Anna Pisapia

Ciao, mi vedi brillare in cielo?
Eh si, sono una stellina luminosa. Una volta ero una ragazzina che stava per diventare una giovane donna.
E ora invece non lo diventerò mai più, resterò per sempre una ragazzina.
Vivevo in Italia ma non ero italiana. Ero arrivata qui piccolissima, da un altro paese che nemmeno ricordo. Non mi appartiene.
Ora invece vivo altrove e questa è casa mia. Ho imparato una lingua nuova che i miei genitori non parlano ancora bene e sono costretta a comunicare nella loro. Così fin da piccola sono già brava a parlare due lingue ma ne voglio imparare ancora altre, appena divento più grande voglio studiare e andare in giro per il mondo e parlare con tutte le persone che incontro.
A Novellara fa freddo a novembre. L’autunno arriva presto. Dopo l’estate infuocata appena passata, quando il caldo era così asfissiante da farti trascorrere tutto il tempo a cercare un po’ di ombra, è arrivato il freddo. Gli alberi non hanno più foglie e il lavoro nelle campagne adesso trova tregua dopo settimane frenetiche.
Io vado a scuola e mi piace. Quando esco di casa, nascondo nella borsa i vestiti che piacciono a me e anche i trucchi. A casa sono costretta a indossare un lungo abito scuro e non posso truccarmi ma quando sono lontana da tutti, vado in bagno e ne esco trasformata. Quella sono io!
E mi piace fare le facce buffe e farmi tante foto. Vado sui social e condivido tante cose, lì ho un sacco di amici. C’è anche Saquib, l’ho conosciuto lì. Mamma quanto è bello! Ho anche dato il primo bacio e scoperto l’amore. Voglio stare con lui per sempre, magari lo sposo anche, chissà.
Un giorno sono tornata a casa dopo la scuola e mio padre aveva una faccia seria, ho avuto paura.
Mi ha detto che ormai sono grande e che dal mese prossimo lascerò la scuola perché mi ha promesso in sposa. È così nella nostra comunità ma io non voglio accettare questa cosa che sa di tradizioni che non mi appartengono. Comincio a parlare con lui, poi alzo la voce perché chiedo spiegazioni e nessuno me ne dà. Intanto sono arrivati i miei fratelli e i miei zii. Mia mamma in un angolo nemmeno parla, non alza gli occhi, non ha il coraggio di guardarmi. Vorrei che prendesse le mie parti per una volta, che mi difendesse, che dicesse che è tutto sbagliato che noi donne ora in Italia siamo libere di poter andare a scuola e, soprattutto, di poterci sposare decidendo noi chi e quando. Ma lui non sente ragioni e appena mi sente dire che non sposerò mai uno sconosciuto e che un fidanzato ce l’ho già, alza la mano e mi colpisce in pieno volto con violenza. Resto tramortita da quel colpo assestato con quelle mani che conoscono solo la durezza del lavoro. Se ci ripenso, non mi ha mai accarezzato e non ha mai fatto carezze nemmeno a mia madre. Che cosa triste deve essere non conoscere la dolcezza di una carezza. Saquib e io invece ce ne facciamo tante di coccole, avvolti nelle nostre grosse camicie di flanella a quadri, mi toglie il rossetto con i baci e io ne sono felice.
Ora invece sta cambiando tutto, in poche ore tutta la mia vita sta diventando un incubo da cui voglio svegliarmi e in fretta. Mi vedo stretta in una morsa che non lascia intravedere uscite. Vado a dormire, la faccia mi fa ancora male, è rossa e gonfia. Nel silenzio della notte penso che tra poche settimane sarà il mio compleanno, ho imparato che in Italia, quando compi diciotto anni sei maggiorenne, hai la libertà di decidere e di scegliere per te. Nessuno, padre o fratello o zio, può farlo per te.
E mentre tutti dormono mi alzo e, in silenzio, prendo alcuni vestiti e li ficco velocemente in una borsa. Sgattaiolo fuori, attenta a non farmi sentire e scappo via da quella casa. Sola in strada, nel buio della notte, non so dove andare ma a scuola ci hanno detto che ci sono luoghi per chi ha bisogno di aiuto e così decido di andare lì a chiedere se possono aiutare anche me.
Mi aprono e mi fanno entrare, anche se è notte e fa freddo. Racconto tutto a una giovane donna dai capelli colore del miele, è dolce la sua voce, mi rassicura con una tazza di cioccolata calda e mi dice di stare tranquilla che a me adesso ci penseranno loro. Mi dice che potrò andare in un posto sicuro e nessuno potrà più trovarmi. Sono felice, per la prima volta nella mia vita, solo un attimo di tristezza pensando a chi non ha colpe ma paga e pagherà anche per me. Solo un attimo e poi tutto scompare, spazzato via dalla conquistata libertà. E così me ne sto nascosta per settimane, aspetto di poter incontrare Saquib con il quale voglio andare in un’altra città e ricominciare una nuova vita. Le persone del centro hanno parlato anche con i carabinieri, hanno spiegato tutto e so di poter contare su di loro. Ormai manca poco, mi sembra di sognare a occhi aperti. Chissà a casa mia cosa avranno fatto quando hanno scoperto la mia fuga, sicuramente mi stanno cercando ancora. Saranno arrabbiati, lo so ma non mi importa. Io voglio essere libera e con loro non lo sarò mai. Sono combattuta perché mi sembra di tradire la mia gente, il mio sangue, le mie radici ma il richiamo della libertà è più forte. Se cambiassero idea io potrei tornare a casa e ricominciare ma so che non succederà mai. Se torno a casa mi sposerò con uno sconosciuto e diventerò una sua proprietà. Non sarò più una persona, una donna, sarò soltanto la moglie di un uomo che dovrò servire e rispettare e dovrò fare tutto quello che mi dirà.
Le settimane sono trascorse in fretta, ormai è tutto pronto per andare via. Servono i documenti che nella fretta di quella notte ho lasciato a casa. Saquib ha provato ad andare a casa e farseli consegnare da mia madre ma lei non lo ha fatto, ha troppa paura di mio padre, di quello che potrebbe farle. E così lo ha mandato via, forse per proteggerlo. Sa bene che mio padre e i miei zii lo ritengono responsabile della mia fuga. E allora faccio la sola cosa che non avrei dovuto fare, decido di andare a casa mia per prendere il mio passaporto.
Finisce la mia vita il giorno in cui torno a casa, divento prigioniera di chi mi ha messo al mondo, non mi fanno uscire e nemmeno andare a scuola. I servizi sociali si presentano alla mia porta ma hanno le mani legate. Solo mio fratello mi porta i biscotti la sera e, nella mia stanza, ci raccontiamo tante cose. Lui mi sorride e mi abbraccia forte, quando siamo soli mi dice di non aver paura. Ma io non ci credo. Un giorno ho sentito i miei zii dire cose paurose che non ho capito del tutto e da allora vivo sospesa, come in attesa.
Mi chiamo Saman Abbass e ora sono una bellissima stella nel cielo.
Non sono diventata grande e non sono morta libera, il mio corpo non è stato mai ritrovato.
Nessuno sa dove sono sepolta e nessuno porterà mai un fiore sulla mia tomba.
Non ci saranno preghiere o lacrime per me, forse la mia voglia di libertà non ha il diritto di reclamarne.
Il mio nome è Saman, ora sono una stella nel cielo e vorrei che la mia storia non venisse dimenticata.

 

Casa di Bambola

di Angela Scaglione

Giacoma si chiamava, era lei la bambola.
Viveva in un mondo incantato, al riparo di ogni bruttura e di ogni miseria umana. I suoi genitori le avevano costruito attorno una barriera invisibile di protezione affettiva. In quella casa, dove lei, figlia unica e amatissima, abitava come una piccola principessa.

La prima volta che vi entrai mi colpì il contrasto con casa mia.

Da noi regnava la fantasia, un allegro disordine, generato da sette ragazzi abbastanza turbolenti e due genitori indaffaratissimi e vivaci. Da Giacoma, tutto era calmo, rallentato, pacato. Inevitabilmente, bisognava controllarsi, adeguarsi a quel ritmo lento. Ogni sedia aveva il suo bel cuscino ricamato, pizzi e tende abbondavano e si respirava un persistente profumo di violette.

La cosa che mi sconvolse fu quando mi servirono il te dopo avermi invitata a un tavolino basso ricoperto da una finissima tovaglia ricamata.

Che paura provai di rovesciare tutto. Immaginate il rito del tè alle 17.00 in Sicilia? In quella casa mi sentii a disagio come mai più mi capitò da bambina, si,perché ero una bambina ed ero abituata in modo diverso.

Nel loro linguaggio tutto diventava vezzeggiativo e mi sentii chiamare “ Angioletta “ la bambola era “ Giacometta “ e la sua mamma era “ Ciccina “.

Giacoma era una ragazza bellissima e elegante, i suoi genitori la curavano esageratamente e per chi come me, doveva condividere spazi, vestiti, scarpe e ogni risorsa utile che una grande famiglia imponeva, mi provocò una certa invidia. Quella ragazza, ai miei occhi di bambina, era una privilegiata. Solo col tempo capii cosa volesse dire la ricchezza di una grande famiglia, l’immenso piacere di avere accanto gente vera e attenta ai miei bisogni.

Nella favola di “ Giacometta “ un bel giorno arrivò il principe, lei lo guardò con occhi sognanti, lo vide, sicuramente azzurro ma, lui non lo era. Lui era bello e cattivo, aveva fiutato l’affare e non se lo sarebbe lasciato sfuggire.

Si sposarono in pompa magna, lei sembrava una piccola nuvoletta di pizzo, lui rideva soddisfatto.

Ci mise poco a farle sparire il sorriso, cominciò a sperperare subito e quei poveri ingenui genitori non capirono in che mani si erano messi.

Quando arrivò la loro bambina, Giacoma tentò di reagire ma fu la volta che prese le botte poi non finì più.

A ogni richiesta di denaro non esaudita fioccavano maltrattamenti per tutti. Quando nacque il secondo bambino, Giacoma era l’ombra di quello splendore di ragazza che era stata.

Era sparito il suo sorriso luminoso, la sua grazia nel vestire, tutto sparito. La disperazione la portò a scappare da lui ma la minaccia di toglierle i figli la fece tornare.

Fu la sua fine.

Non sopportò quella vita, non era stata abituata a lottare per se stessa. Si spense giovanissima di dolore e di botte.

Quella bambola delicata era finita nelle mani di un orco che la distrusse ma, almeno si risparmiò di vedere i suoi figli finire in istituto per essere adottati quando lui si schiantò in un incidente stradale.

Finì così la favola di quella famiglia particolare, di quella principessa che avrebbe meritato un altro principe, un altro futuro.

Io li conoscevo

di Carla Bisogno

Io li conoscevo
Le loro biciclette appoggiate al muro
Le loro facce pulite
Poi il ghigno sui loro volti
Insulti indecenti dalle loro bocche
Mi strapparono i vestiti
La rabbia furiosa delle loro mani
Diventarono artigli , mi lacerarono l’anima
Gridavo pietà, gridavo i loro nomi
Diventati ormai falsi e bugiardi
Io li conoscevo
Tra i miei capelli rovi e spine
Avevano adesso mani insanguinate
Sul mio corpo freddo
Solo dolore.

Annientata

di Angela Scaglione

dedicata a Sara Pedri

Ginecologa, Ospedale di Trento

 

Di te, giovane e brava,

ragazza realizzata,

Non è rimasto niente,

Solo il dolore

Di chi ti ha amata tanto,

Di chi cerca ancora

E non si arrende.

Annientata!

Ti hanno uccisa piano

Goccia a goccia,

Distillando ignominia

E rancore corale.

Nessuno ti ha difesa

In quel tempo crudele

Fatto di ignobile sapienza.

Tu, fragile tra i lupi,

Hai scelto una pace

Dove salvarti e tutelare

Chi piange per te.

Come ti sei sentita

In quella Gabbia

di cattiveria

Mentre moriva il sogno,

il tuo futuro appena iniziato ?

Chi pagherà lo scempio perpetrato?

Chi sconterà questo peccato grave?

Scompari, Sara, ma resta la tua luce,

Il buio avvolge chi non ti tutelò.

Sarai nell’acqua?

Scorri assieme al fiume?

O sei nel vento

In ogni particella viva?

Resterai Giovane, Bella,

Sorriderai da foto

Che ingialliranno nel tempo,

Ma brillerai per sempre

Per noi che amiamo

il tuo sorriso

Bello!

la foto di Sara Pedri è tratta dal Corriere di Bologna

https://corrieredibologna.corriere.it/bologna/cronaca/21_agosto_19/sara-pedri-accuse-primario-tateo-richiesta-una-porta-insonorizzata-d5bf8094-00cb-11ec-94f2-e0432c13a3ec.shtml

Era così bello

di Carla Bisogno

 

Eri così bello mentre mi guardavi
Eri innamorato, con gli occhi mi accarezzavi
Dolci le tue parole, e carezze d’amore
A piene mani me ne davi.
Eri così bello, eppure sospettavi,
Non mi credevi, non ero abbastanza.
Eri così bello…ma negli occhi no,
Eri furioso, eri brutale
Le tue erano adesso parole aspre, amaro fiele mi facevi ingoiare.
Poi, alzasti le mani a colpire, a massacrare.
Pugni chiusi contro la mia pelle.
Eri così bello ma mi sferrasti un calcio
Mi lasciasti a piangere nel mio sangue
Eri così bello…eri così innamorato
Ma io non ti ho più visto così.

Gianfranco Brevetto Oxygène Oxymore, 2021

la foto è dell’Autore

Seduta
O forse camminava.
Perché no?
Correva

Indipendentemente
Dal tempo, dal luogo.
Perché no?
Correva

(Oxygène
Qui gêne
C’est bien un
Oxymore)

La memoria
O forse il presente.
Perché no?
Correva

Sola
Ma non lo sapeva.
Perché no?
Correva

(Oxygène
Qui gêne
C’est bien un
Oxymore)

Seduta
O forse piangeva.
Perché no?
Correva.

 

“DONNA ARCOBALENO”
Poesia di Marina Neri
 
 
” E venne il giorno….
Mi ritrovai piccola, indifesa, incompresa nei gesti e nelle parole come quando venni fuori dal grembo di mia madre…
E venne il giorno…
Mi guardai riflessa in uno specchio,
fattezze sconosciute di chi troppe volte
lego’ i suoi Sì a mani straniere
per carezze fugaci…effimere…lontane…
E venne il giorno…
Mi abbracciai con tenerezza,
sapendo che solo quel calore avrei trovato,
mi lavai il viso con acqua delle lacrime
e poi sorrisi: _ Mi Amo!_ sussurrai e baciai la Vita
E venne il giorno…
Mi vestii di Colori, misi il nero dei miei umori e poi giocai con i pennelli….
Rosso e fui appassionata…
Giallo e fui gelosa…
Verde e corsi incontro alla speranza…
Blu e mi tuffai nell’ amore…
Viola e guardai in me stessa…
E poi l’ Arcobaleno tutto….
Perché Io sono il Tutto e il Niente…
Il Vuoto e il Pieno…
Il Sogno e l’ Incubo..
La Passione e il Gelo
Io sono Donna!
E venne il giorno in cui lo scopristi…
Era quel giorno in cui
Uccidesti i miei Sogni prima ancora di uccidere me!!!
 
Dipinto ” Donna Arcobaleno” di Carmen Schembri Volpe
Viole
di Carla Bisogno
 
Sei a pezzi, sei sempre più stanca
Hai lividi sul cuore e non solo
Lui non ti chiama più amore mio
Non ti abbraccia e non ti guarda
Usa le sue mani per picchiarti
Diventi piccola davanti a lui.
Cosa posso fare per salvarti?
Tu scappa, non permettergli
Più di farti del male.
Quei lividi oggi diventeranno profumati mazzetti di viòle
 
Alle Donne
di Angela Scaglione
Non lo chiamate amore,
non chiamatelo mai amore.
nella furia dell’ uomo,
l’amore è assente, perso,
resta schiacciato nel possesso,
nell’atto sporco, rubato,
nella violenza ottusa.
Non lo scambiate per amore.
L’amore è altro, è cauto, leggero.
Sfiora la pelle, ne sente il profumo,
condivide il dolore, lo stempera,
lo sostiene. mai lo provoca,
abbraccia senza ferire
Non perdonate chi vi oltraggia,
chi vi annulla e ne gode
siate consapevoli che valete un mondo
che senza di voi l’uomo è dimezzato,
ridotto a poco,
siete voi il valore
Cercate donne che sanno lottare,
cercate aiuto in chi sa dare aiuto,
non vi affidate agli aguzzini
con l’ansia di cambiarli
è tempo perso, speranza sprecata.
Cambiano in peggio,
spengono la vita,
distruggono i sogni,
lasciano macerie,
vite annientate, spezzate,
desideri incompiuti,
case vuote.
Vivono d’odio e impongono la morte,
sono uomini persi
individui sbagliati
Si vendicano di donne
che hanno creduto in loro
tradendo i loro sogni,
rubandole la vita.
 
Il grido delle donne
di Mariella Ridda
Tecnica mista su tela – 120×90 cm – Berlino 2021
 
Quel maledetto femminicidio del 5 Novembre 1957
di Roberto Camedda
pubblicato da Elvira Simbula
 
 

La tragica fine di Oretta Scalisi, la maestrina di Piolanas  (Carbonia).

… Era l’alba del cinque Novembre quando Oretta salutò il marito, il geometra cagliaritano Ugo Satta, e i due figli Barbara di cinque anni e Enrico di due.

Diede loro un bacio, l’ultimo, e uscì di corsa da casa recandosi alla stazione ferroviaria di Cagliari per poi salire su un treno che la permise di raggiungere la piccola stazione di Barbusi, alle porte di Carbonia. Oltrepassate le portine pieghevoli di un vagone freddo e semivuoto, scelse dove accomodarsi meglio per affrontare quelle due ore di viaggio che la separavano dalla destinazione finale.

Seduta a fianco del finestrino, trasse dalla borsa un quadernetto, un lapis e un libro colorato, unica compagnia lungo il tragitto e da cui trascrisse alcuni appunti.
Contando le diverse fermate sulla tratta, un’ulteriore rallentamento del convoglio e un forte stridio di freni, la avvertì dell’arrivo.

Qui in un ripostiglio dietro l’ufficio del capostazione avrebbe trovato una bicicletta, che con la forza delle sue giovani gambe intorpidite dal freddo della brina autunnale, la condusse alla borgata di Piolanas, a dieci chilometri da Carbonia, dove gli scolaretti avrebbero avuto per la prima volta una maestra per l’intero anno scolastico.

Oretta non è tranquilla, il tragitto con una bicicletta sgangherata, da sola e tra le campagne deserte la preoccupa, un ansia che qualche giorno prima la spinse a chiedere che qualcuno l’accompagnasse.

La scuola però aveva ripreso le lezioni trascorsi alcuni giorni di vacanza per festeggiare tutti i santi e non vi fu stato tempo per organizzare la scorta.

Quel cinque di Novembre, come succedeva da qualche giorno, a mezzogiorno, terminate le lezioni Oretta saluta tutti, monta in bicicletta e parte, ma non arriverà mai alla stazione di Barbusi.

A dare l’allarme è il marito, preoccupato del ritardo non vedendola rientrare a casa.

Iniziarono le ricerche che si protrarranno fino a tarda notte, quando finalmente su un lato di un canneto le torce illuminarono un corpo riverso in una pozza di sangue e con la gola squarciata. Era Oretta.
Il cadavere venne scoperto dal marito.
Le indagini vennero dirette personalmente dal questore di Cagliari, Weurel, in collaborazione con i Carabinieri e si comprese sin dal principio che non fu un omicidio a scopo di rapina, accanto al cadavere furono ritrovate la bicicletta, la borsa e l’orologio che lei portava ancora al polso.
Venne accertato che l’omicidio avvenne tra le 12 e le 12.30 di quel Martedì.
L’assassino conosceva bene le abitudini della donna, attese la sua vittima nascosto dietro un canneto e quando lei arrivò a tiro, lui le bloccò la strada e la bicicletta, la strattonò finche la giovane cadesse a terra.
La trascinò poi a forza dietro il canneto dove, dopo averla brutalmente violentata, l’assasinò.
Gli inquirenti rinvennero sul suo corpo tutti i segni di una disperata lotta, lei tentò di tutto prima di soccombere al bruto. Compiuta la violenza, l’uomo che da lei riconosciuto, la uccise recidendole la gola con un coltello affilato.

Nei giorni successivi in caserma vi fu un gran numero di interrogatori ma solo un uomo restò in carcere.

Angelo Manca è un contadino padre di quattro figli, a lui la maestrina si era rivolta per ripararle la bicicletta che il Provveditorato le aveva messo a disposizione. Lei a Cagliari aveva già acquistato i bulloni per ripararla e questi furono ritrovati vicino al corpo.

Angelo giurò di aver già riparato la bicicletta nei giorni precedenti e quindi non poteva esser lui a perdere quei bulloni che dovevano essere nelle tasche di Oretta, tenuti a scorta nell’ eventualità che in futuro ci fosse ancora bisogno.
I suoi compagni di lavoro però, testimoniarono che quella mattina, lui si allontanò tra il mezzogiorno e le quattordici, altri raccontarono di averlo visto aggirarsi furtivo nei pressi del delitto proprio tra quelle ore.

Ci furono anche tentativi di dissuadere il marito dalle ricerche, questo fu abbastanza per convalidare il fermo e per affermare la colpevolezza nella sentenza istruttoria del 23 aprile del 1958.

Angelo venne tradotto in carcere dove si impiccò due settimane dopo l’omicidio, mezz’ ora prima aveva mangiato e scambiato due chiacchiere con la guardia carceraria.

A Cagliari intanto le insegnanti manifestarono in piazza, Oretta divenne il simbolo di una situazione di grave pericolo denunciata a più riprese e ignorata sino alla tragedia e la questione venne discussa in Parlamento.

Trascorso un anno dal luttuoso fatto, a Piolanas vi fù celebrata una solenne commemorazione.

La piccola scuola organizzata in una chiesetta sconsacrata, non vide più il dolce sorriso di una giovane maestrina, Oretta Scalisi, romana appena venticinquenne, e i suoi occhi azzurro cielo non lessero più i pensierini di quegli scolaretti.

La sostituì un maestro, un uomo.

Ad attenderlo ora alla piccola stazione di Barbusi non vi è più una bicicletta malandata,
ma un’automobile che lo accompagna ogni giorno al sul posto di lavoro.

Dovette succedere una tragedia, e una giovane donna dovette morire prima che la sicurezza fosse garantita a chi ogni giorno attraversava strade deserte per poter insegnare i bambini a leggere e scrivere.

Non fù il povero Angelo Manca ad uccidere la poveretta, ma suo marito, il geometra cagliaritano che per primo scoprì il cadavere, venne denunciato dopo anni dalla sua seconda moglie e lui confessò.

(pubblicato su fb da Roberto Camedda il 5 novembre 2021)
Dati:
1) – l’Unità.
2) – La donna sarda – Morena Deriu – 2016

Quel NO che cambiò la storia

di Angela Scaglione

Quel NO che cambiò la storia
Franca aveva un viso da bambina e una volontà ferrea.
Nella Sicilia degli anni’60 bastava poco per perdere la reputazione. Era sufficiente il pettegolezzo di una comare oppure un sorriso di troppo alla persona sbagliata. La “ moralità “era un concetto fragilissimo e le donne, spesso, pagavano a caro prezzo quello che veniva considerato sbaglio, errore, leggerezza, mai amore. Baciarsi era considerato un tabù, figuriamoci un rapporto sessuale, se poi da questo nasceva un figlio, quella donna era marchiata a vita con una parola infamante “ PUTTANA “. L’orrore era che la sua condizione la esponeva al libero disprezzo e tanti si sentivano autorizzati ad approfittarne.
Nel 1965 Franca Viola disse NO, dopo essere stata sequestrata e stuprata da un piccolo delinquente del paese che non voleva accettare il suo rifiuto ad essere corteggiata. La regola delle nozze riparatrici fu sovvertita da una sedicenne coraggiosa, fu lei, una ragazza siciliana a dire, pubblicamente :- Piuttosto che sposare lui, mi uccido. Non ebbe paura Franca dei pettegolezzi, né si piegò all’usanza barbara delle nozze obbligate. Aveva subito una grave violenza e lo Stato dovette difenderla. Per la prima volta, finì in galera il violentatore e la vittima cambiò, col suo coraggio, quella regola mai scritta ma imperante, che condannava le vittime a sposare chi le aveva violentate. Quando ci fu la sentenza di condanna, tutte le donne siciliane esultarono; era l’inizio della loro emancipazione, si riprendevano la libertà di scegliere chi volevano loro e una legge fu cambiata grazie alla determinazione di quella ragazza che disse NO, convintamente.

Essere Donna

di Angela Scaglione

Essere Donna è fantastico!
Sta a noi fare della nostra vita un capolavoro,
Lavorando su noi stesse, facendo gruppo e sostenendoci reciprocamente.
Diventeremmo invincibili, forti della nostra unità,
Consapevoli delle tante specificità individuali, riconoscendo il potenziale di ciascuna di noi.
Non subiremmo tante ingiustizie, non sopporteremmo soprusi né angherie da parte di alcuni uomini, specie nel campo lavorativo ma anche in quello familiare. La sorellanza ci dovrebbe motivare a fare alleanze invece che guerre tra noi. Diventare alleate e mai nemiche, sostenere piuttosto che criticare, appoggiare e difendere nei momenti critici.
La nostra debolezza, spesso la creiamo noi stesse, con piccole ipocrisie e invidie latenti. Dovremmo superare l’attitudine dell’apparire e concentrarci sull’essere quel che siamo, con pregi e difetti ma forti del nostro orgoglio femminile.
Siamo noi che reggiamo pesi familiari, che ci impegniamo a seguire figli e lavoro, provvediamo a far quadrare bilanci e se abbiamo accanto l’uomo giusto, facciamo anche i miracoli di una famiglia unita.
Siamo donne non bambole e neanche oggetti da esibire. Il nostro cielo è immenso se siamo nel posto giusto con le persone giuste. Non chiediamo l’impossibile, esigiamo rispetto, amore e comprensione e siamo disposte a dare la stessa cosa a chi fa parte del nostro cielo.
Siamo consapevoli che l’amore può finire ma deve rimanere la libertà di ciascuno a vivere la propria vita. Niente violenze! Niente sopraffazione, solo libertà d’amare reciprocamente e dopo, vivere, senza che nessuno ci consideri ” CASA SUA ”

Pensavo fosse amore

di Mario Rigli

Eppure pensavo che si trattasse di amore
avremmo scalato montagne, attraversato foreste
che mai mi avresti procurato dolore
che avresti gioito sulle mie carni peste
e invece in un angolo buio ho stretto i ginocchi
in attesa di botte, di calci e di sputi
con le mai tremanti ho coperto gli occhi
ho pensato al tempo, agli anni perduti
mi hai privato dell’ultimo filo di voce
ho sentito il caldo del sangue colare dal naso
i miei e tuoi figli hai messo in croce
ti sei scoperto tu, non bestia a caso
tu non potevi essere Adamo
la mia non è la tua costola
era falso ogni tuo “ti amo”
tu solo una fetida pustola.
Ed io madre, moglie, sorella e donna
davo di me più del dovuto
dell’umanità mi pensavo colonna
e per te ero solo starnuto
la tua lama che penetra non fa male
io vivrò ancora anche se perdo la vita
solo un passaggio duro da affrontare
ma per te è sicuramente finita,
non calpesterò più le strade del mondo
ne solcherò le onde del mare
ma tu, essere nauseabondo
non sai cosa vuol dire amare.
Nei miei palmi hai piantato chiodi
come nelle mani dei nostri figli
suppliche e lamenti più non odi
devi sprofondare, non hai più appigli.

8 Marzo tutti i giorni

di Giovani De Lucia

Non dovrebbero esserci date per ricordare la brutalità umana, se tale si perpetua ogni giorno. Vorrei che fosse sempre l’8 marzo, 365 giorni di 8 marzo. Noi nasciamo da una donna ed è l’ultimo ricordo, di una donna è l’ultima carezza che sentiamo, il nome di una donna è l’ultima invocazione che pronunciano prima di diventare infinito. Cerchiamo di vivere 365 giorni all’anno come un unico grande 8 marzo

“Non voglio immaginavi tutte come una sola ed unica essenza, voglio immaginarvi come fiori di campo, ognuna con il suo colore, con il suo profumo. Ognuna con il suo modo unico di affrontare il vento della vita, capaci di mischiare semi come i canti dei passeri. Ognuna con la sua rugiada e con i suoi raggi di sole. Ognuna pronta a farsi baciare dalla luna e ad accogliere i sogni più intimi. Oggi dovrebbe essere un giorno speciale da ricordare sempre, invece credo che vada celebrato questo giorno ogni giorno, perché uniche siete come fiori di campo. Auguri Vite.
(Il Nautiere)

In piedi, Signori, davanti ad una Donna

di Silvia Ravelli

Quando lessi per la prima volta queste parole di W. Shakespeare, pensai che di meglio
non si poteva certamente dire della Donna : mai prima di allora avevo trovato scritti di tale livello, tanto che sinceramente lo posso definire insuperabile.
Cogliere cosi profonde sfumature in poche righe dando senso vibrante, onorare l’essenza senza piaggerie, esaltare senza eccedere ma arrivando direttamente al cuore, impattare in modo altisonante eppure lineare usando un linguaggio perfetto, adeguato e senza fronzoli è appannaggio di poche rare penne.

Spero possiate condividere le mie emozioni ed un grazie sincero
Buona lettura

In piedi, Signori, davanti ad una Donna

Per tutte le violenze consumate su di Lei,
per tutte le umiliazioni che ha subito,
per il suo corpo che avete sfruttato,
per la sua intelligenza che avete calpestato,
per l’ignoranza in cui l’avete lasciata,
per la liberta’ che le avete negato,
per la bocca che le avete tappato,
per le ali che le avete tagliato,
per tutto questo:
in piedi, Signori, davanti ad una Donna
E non bastasse questo, inchinatevi,ogni volta che vi guarda l’anima,
perché Lei la sa vedere,
perché Lei sa farla cantare.
In piedi, Signori, ogni volta che vi accarezza una mano,
ogni volta che vi asciuga le lacrime come foste i suoi figli,
e quando vi aspetta,anche se Lei vorrebbe correre.
In piedi, sempre in piedi, miei Signori,
quando entra nella stanza e suona l’amore
e quando vi nasconde il dolore e la solitudine
e il bisogno terribile di essere amata.
Non provate ad allungare la vostra mano per aiutarla
Quando Lei crolla sotto il peso del mondo.
Non ha bisogno della vostra compassione.
Ha bisogno che voi vi sediate in terra vicino a Lei
E che aspettiate che il cuore calmi il battito, che la paura scompaia,
che tutto il mondo riprenda a girare tranquillo.
E sarà sempre Lei ad alzarsi per prima
E a darvi la mano per tirarvi su
In modo da avvicinarvi al cielo,
in quel cielo alto dove la sua anima vive e da dove,
Signori,
non la strapperete mai.

William Shakespeare

la foto è tratta dal film Shakespeare in Love

Era una bambina

di Carla Bisogno

Il ronzio del televisore acceso
caldo e finestre spalancate , immagini forti e dialoghi duri , violenti
lacrime copiose, silenziose allagano il viso.
Nel nero della notte quelle lacrime lavano un dolore antico, purificano quel corpo innocente violato , sporcato fin dentro l’anima.
Non basteranno tutte le lacrime del mondo a nettare quelle membra acerbe, quei seni appena sbocciati, quella natura serbata nel profondo. Solo ieri correva in quel prato di margheritine , braccia nude incontro alle nuvole , sul viso un sorriso da bambina.

Dipinto di #RobertoFerri ” l’ Angelo , La Morte e il Diavolo” olio su tela 150x 150.

La corona di spine

di Marina Neri

Cinge i tuoi fianchi, donna, diadema perenne.
Impreziosito di spine quando decisero che nient’ altro eri che il ricettacolo dei loro umori.
Cinge i tuoi fianchi, unico orpello, gli altri li han giocati a testa o croce , centurioni con il gladio fra le gambe, pretoriani al servizio di un dio mutevole secondo le pulsioni.
E ti diedero uno schiaffo e ti dissero: – Taci! –
E ti diedero un pugno e ti dissero:- Ascoltami!-
E ti diedero un calcio e ti dissero: – Ubbidisci!-
E ti fecero regina del regno del loro piacere e ti dissero:- non importa se godi solo per non morire!-
Hai contato le spine di quella corona che sovrasta il tuo pube?
Quanto fa male il peso di un uomo che fa penetrare le spine dentro la tua carne?
Quanto costa dinanzi al Sinedrio la congiura ordita al tuo grembo?
Quanto tatua il dolore di essere monile senza mai divenire Galatea?
Quanto è triste essere crocifissa ogni giorno senza neppure una religione a renderti dea !

Una vita a colori

di Nadia Corradetti

Bianca e nera la vita
Capelli neri, tanti, lisci Troppo lisci, tanto da non spettinarsi mai
Troppo, mai.
Calzettoni bianchi, cotone rigido, duro, ricamati, lunghi ma sempre troppo corti e stretti
Come la vita che sarebbe stata
Scarpe delicate, “da signorina”.
Signorina perbene, gonna, lunga, mai sopra al ginocchio perché ” Non sta bene”.
Occhi neri, di quelli che si aprono al sorriso,
pronti ad affacciarsi sul tuo mondo interiore
Neri e profondi.
Il suo mondo interiore non lo trovi in quella profondità.
È nell’abisso.
Sangue, sperma, vomito. Schifo.
Una vita a colori si affaccia. Calze
gioia
minigonna
ombretti e rossetto
abbracci
amore.
Amore…
Un bagliore.
Una lama lucente.
Affonda.
Sangue. Rosso.
Buio.

Lei e Dio

di Francesco Briganti

Lei e dio
giaci straccio sporco
lordata del tuo dolore
ovunque rotta e persa
l’anima corre nell’oblio
disperata incompresa vittima
merce avariata al mondo
soffri l’indifferenza patita
piangi lacrime di sangue
trasudi la vergogna carnefice
della bestia che ti ha violato
gli occhi lo sguardo l’anima
donna vilipesa nel corpo
anima offesa nella dignità
eterno marchio d’infamia
all’infame brutale iena
maschio ferale e violento
giacché Iddio è donna
non paga al sabato
ma la domenica mattina
già al sorgere del sole
non deve più nulla a nessuno
e chi aveva debiti ha gia pagato!

(Ho) Pianto

di Ernesto Aufiero

 

“Potrò mai perdonare a te che giri casa
con la vestaglia unta di macchie di dolore …”
Claudio Lolli – Compagni a venire

“Per me la previsione ha sempre sciupato il godimento.
Ho visto il futuro solo perdendoci”.
Jean-Jacques Rousseau – Confessioni

L’ottobre dei miei vent’anni.
Passo notte e giorno a scrivere uno dei miei primi testi teatrali, un testo cattivo e scorretto, sghembo, sull’aborto.
Sono divorato dal fuoco della militanza e dall’urgenza di andare in scena con un tema scottante, che affronto utilizzando cori greci, canzoni di Claudio Lolli (“Compagni a venire” scorretto e fastidioso come un’unghiata sulla lavagna), e brani di Don Lorenzo Milani.
Mio padre mi affronta una mattina presto, prima di andare in ufficio.
Inizia a parlarmi con i toni accattivanti dell’adulto comprensivo: “… perché ti comporti così? Com’è che non studi più? Che cosa vuoi fare della tua vita?”
Rispondo solo perché mi sento incalzato: “… voglio fare teatro, scrivere e mettere in scena cose, racconti”.
Mi guarda in un modo che mi è rimasto impresso per sempre, come se gli avessi mancato di rispetto.
“Teatro? Racconti? Con quale faccia, con quale coraggio tu a vent’anni mi vieni a dire non studio perché voglio fare teatro? Dimmi, spiegami con quale coraggio!”
Mentre mio padre parla, seduto su una sedia della cucina, impermeabile addosso, mia madre è china a terra, gli infila e gli allaccia le scarpe, le lustra.
La guardo, guardo il suo modo franoso di amare.
E a mio padre non spiego nulla, faccio invece una cosa molto stupida: mi metto a piangere.
Lui reagisce immediatamente: “Ci avrei scommesso: dopo il teatro il pianto, cose da femminucce…”
Si alza, esce.
Da allora è passato molto tempo, i contorni di questo fatto sono sbiaditi, non ricordo nemmeno le parole esatte che mio padre mi disse, a parte la certezza che usò proprio quelle espressioni: “con quale coraggio” e “pianto? roba da femminucce”.
Restai con la mia ferita, avevo vent’anni e per un gran numero di motivi non particolarmente interessanti smisi di studiare e iniziai a lavorare.
Mi aspettavo da mio padre lodi e consigli incoraggianti, invece lui mi aveva trattato come se quella mia ambizione fosse una gravissima colpa.
Giurai che non avrei fatto teatro mai più. Ero umiliato e furibondo, disperato e feroce. Riuscii a nascondere in qualche angolo del cervello la vergogna di aver pianto “come una femminuccia”, e il rancore e lo spavento per la reazione scomposta di un adulto che amavo tanto.
“Pianto? roba da femminucce” mi aveva detto: un’espressione assurda, solo le donne possono piangere? A me piaceva piangere, mi commuovevo spesso, da solo, per esili cose.
Volevo togliergli autorità e ci riuscii. Mi aveva guastato il piacere di pensare al palcoscenico e il godimento di buttare in lacrime i sentimenti belli e brutti che vivevo.
Solo da poco tempo ho rivisto in quegli attimi l’infelicità di chi si è scoperto non all’altezza del suo stesso ruolo, e quando vede che il ragazzo che ha davanti sta per mettere precocemente a rischio, senza alcuna consapevolezza, l’intera sua vita, prova fastidio, rabbia e pena e attenzione e affetto e gelosia.
Un impasto disomogeneo di sentimenti che lo fa agire d’istinto in modo eccessivo: “Attenzione, piccolo stupido, la vita è una cosa seria, e un maschio nella vita deve fare cose da maschi, io lo so come stanno le cose, lascia perdere …”
Come se per tirarmi via da un pericolo mettesse troppa forza e mi spezzasse un braccio e una gamba.
Insomma mio padre finì in un groviglio di quelli che oggi so riconoscere abbastanza bene.
Mi riferisco a quei piccoli e grandi momenti nella nostra vita in cui l’ordine che ci siamo assegnati ribolle, e i pezzi eterogenei di cui siamo fatti, mai veramente connessi, si urtano e vanno in mille minuscole scaglie, come le onde quando si tuffano e schiumano, riducendoci per un minuto, per giorni, anche per anni, alla cosa arruffata, sempre debordante, che veramente siamo.
Mio padre, con tutta probabilità, mi investì con il suo improvviso disordine e nei pochi secondi in cui, davanti ai miei occhi, si sformò “… piangi? come una femminuccia?” mi fece male fino a sformare anche me.
A vent’anni mi spaventai, al punto che la perdita brusca, per qualche istante, della vecchia apparente coesione, l’insorgere in me come negli altri dell’incoerenza, seguita tuttora a spaventarmi, e allo stesso modo mi spaventa la debolezza, e il pianto.
Poi sono cresciuto e di quei momenti ne ho visti altri, e altri ancora mi sono tornati in mente fino a diventare il mio nutrimento di uomo: devo a loro se mi è sembrato di avere qualche ragione per scrivere, e cercare e raccogliere le storie di altri.
Crescendo non ho più creduto, per esempio, alla convenzione che abbiamo un unico volto, e che quel volto è la nostra identità. Siamo organismi mutevoli e il viso non è la nostra componente più stabile.
Perciò mi sono tenuto le mie trenta e più facce quotidiane, utili per vivere pienamente la mia vita. So che una di queste facce è donna, è bellissima, e ne sono orgogliosa.
Oggi abbiamo bisogno più che mai di strapparci a noi stessi, ad artificiose e abusatissime, stereotipate identità, e sentire tutto il peso, tutta la responsabilità di parlare e conoscere dell’altro, di esseri umani e non umani, di pietre, di piante, del brutto e del bello, del pianto e del riso, sconfinando, disaggregando, aggregando, inventando.
Oggi a mio figlio quattordicenne spiego che le uniche cose certe restano le sue lacrime per i primi fallimenti sentimentali, e quelle materialissime dei testi che nel tempo la mano è andata componendo, parola dietro parola.
Oggi Dio che scrive c’è, domani no.
Oggi è uomo o donna, non importa.
Oggi ha talento, domani lo perde.
Oggi si monta la testa, sogna, e piange.
Domani se la smonta. O è un padre qualunque, il mondo, a smontarla.

Nel deserto

di Maria Ester Mastrogiovanni

In quale deserto del cuore
inizia quell’amore che non è amore?
Quale assenza da sé
quale memoria
può far nascere da un fiore
veleni di violenza?
Lo chiamano amore
e poi diventa impotenza
e poi paura
di perdere se stesso insieme a lei
e poi rabbia di una libertà perduta
forse mai avuta
e poi furia di sangue
per colpire e poi colpire
e poi annichilire
quella presenza enorme
che ti cura ti ciba ti dà il suo sesso
tuatuatuasolotua
foglia in preda al risucchio del vento
ti armi di terra
scivoli fra pietre
cambi pelle fra sorrisi di cielo
e ghigni di denti pronti ad afferrare
solo
annaspi nella tua violenza
nessuno che ti salvi
impregnato
di vernice scura
il respiro in gabbia
nella luce del giorno
avido bevi il calore di lei
dopo di lei senza di lei la fine anche di te
anneghi nel sapore di morte della tua sconfitta.
Non è una poesia
di Marina Neri
 
Sapete quanto tempo impiega una donna a sporgere denuncia per un caso di violenza familiare, abuso, stalking, molestie? A volte mesi, altre volte anni…spesso mai! Tutte indistintamente vorrebbero farlo, liberarsi da un incubo, tornare a volare fuggendo da una ragnatela balorda. Ma la donna è sempre madre anche quando è giovane , anche quando ad essere violate sono le carni di una ragazza. Pensa sempre di redimere il suo aguzzino, di poterlo aiutare a venirne fuori, a guarire da un malsano amore . Che se è malato non è amore. Arrivano da un avvocato da sole o accompagnate da chi desidera aiutarle ed è impotente contro il sistema, il pregiudizio, la resistenza stessa della vittima. Lo sguardo è basso, sulle mani sempre incrociate sul grembo. Un rituale antico di vittima prescelta dalla notte dei tempi, immolata e lasciata lì a monito nella sua nudità di corpo e di anima. Sguardo basso e mani incrociate sul ventre. Vergogna e difesa. I torrioni del castello di una donna. Chi aiuta le donne violate, abusate, ferite, deve entrare in empatia con loro. Non c’è ipocrisia nello sguardo che si abbassa con quello di una donna umiliata. Non c’è retorica nelle mani che spontaneamente si intrecciano sul grembo, imitando la difesa, la strenua difesa della dignità. A volte solo la spietata fotografia di una donna brutalmente seviziata, uccisa scuote quella coltre spessa che imprigiona la loro anima. Altre volte l’ Amore per un figlio rende il miracolo di un dio che era stato troppo lontano per udire prima i pianti e le grida. Sapete quanto deve combattere una donna prima di firmare la sua querela dinanzi alle forze di polizia? E, una volta presentata la querela per fare sì che le indagini proseguano e non venga archiviata la richiesta di punizione del reo? Sapete quanto un processo costi a una donna abusata , violata, mortificata nell’ amore donato e non solo in termini economici? Deve combattere tanto. Costa tanto. Perché prima è la meretrice, la puttana e deve fare un lavorio immane per scrollarsi di dosso questa convinzione che è il marchio di ogni donna quando un uomo su di lei pecca. Un percorso lunghissimo quando decidono di salvarsi la vita. L’ alternativa è morire. Perché l’ escalation della violenza conduce sempre, se non arginata, al femminicidio. E in questo percorso accanto a loro c’ è la legge con ordini di allontanamento, con arresto, c’è il servizio sociale con psicologi e terapeuti che conducono per mano la donna dentro i gironi del suo inferno, ci sono gli avvocati esperti nel settore che nuotano con lei in apnea per ritrovare la superficie, ci sono i familiari che sorreggono ciò che all’ inizio è solo una statua senza più un’ anima. Poi, basta un’ intervista per vanificare l’ impegno di tanta gente. Tra una mimica facciale eloquente e frasette ad effetto, un lavoro immane di tanta gente vanificato. Chi denuncia, chi ha il coraggio di cercare il riscatto deve essere celebrato , indicato come esempio non irriso, fosse anche con la semplice minimizzazione del suo vissuto. Chi denuncia e ha il coraggio di affrontare il processo, un processo che la società e il pensiero maschilista anticipano nelle menti ancor prima che nelle aule di tribunale, ha già vinto, perché ha scritto la parola ” fine” anche se un giorno non scriverà la parola Giustizia.
 
Quando una donna muore
di Marina Neri
 
Quando una donna muore…
Quando una donna muore ammazzata dall’ uomo che ama anche il sole prova vergogna e si cela non sopportando la sua stessa luce.
Quando una donna muore ammazzata dall’ uomo che ama anche il mare raschia il suo fondo, si ritrae e porta con sé conchiglie coi suoni e coi colori.
Quando una donna muore ammazzata dall’uomo che ama anche la terra trema del suo stesso terrore, si apre per nascondersi, per mascherare il suo pianto.
Quando una donna muore ammazzata dall’ uomo che ama né luna e né stelle vogliono celebrare la notte, il grido levato squarcia il silenzio della loro eternità e spente ammutoliscono di tenebra.
Quando una donna muore ammazzata dall’uomo che ama anche la statua dell’Italia scioglie il suo marmo e dinanzi alla sedia vuota drappeggiata di sangue capovolge se stessa …riflette…si riflette dentro la paura se non trova la mano tesa della Giustizia.
La veste color rubino
di Carla Bisogno
Nudo si stagliava contro la parete scura,
Nera di fuliggine, sporcata dalle mani dei passanti.
Nudo, il suo corpo bianco di statua marmorea anelava con bramosa lascivia.
Lei nel suo abito color rubino, setoso scivolava lungo la scala facendo attenzione ai sassi, alle feritoie dei gradini. Entrò nella stanza e il biancore di quel corpo ferì i suoi occhi, era di una bellezza magnifica .Lui la vide smarrita, accecata da quel raggio di luce. Le fu alle spalle ghermendola , si impadronì di quella veste e lei restò nuda in mezzo ai ruderi. Poi la statua si appiattì e tornò nel suo quadro, al suo posto. Zelda scese di corsa le scale rabbrividendo nel suo abito rosso rubino.
 
Violenza è
di Angela Scaglione

Violenza è
Violenza è un complimento volgare.
Violenza è sottovalutare una denuncia per maltrattamento.
Violenza è essere valutata per l’aspetto e non per la competenza.
Violenza è ignorare chi ci chiede aiuto.
Violenza è fare leggi che penalizzano le donne.
Violenza è la disparità salariale che discrimina le donne.
Violenza è obbligare le donne a rapporti non voluti.
Violenza è far sposare una donna non consenziente.
Violenza è picchiare una donna.
Violenza è rifiutargli la libertà di sentirsi libera di esistere in quanto donna.

La violenza è strisciante, subdola, invasiva.

Arriva in tanti modi, si manifesta verbalmente, quando giunge al limite diventa pericolosa, distruttiva, letale.

Ci vorrebbero dei corsi per imparare a distinguerla, a percepirla prima che degeneri.

Troppe donne uccise, si sono fidate di chi diceva d’amarle.

Chi ama non picchia, non mortifica, non umilia.

Al primo schiaffo telefonate al 1522, cercate aiuto, salvatevi la vita.

L’ultima sera della rosa rossa

di Marina Neri

Ogni sera, la mia sera
temo l’ultima nel suo sguardo…

Rosa rossa,regina io ero
nel giardino di un solo re.

Mi recise,con mano bruta
mi umilio’ dinanzi a sé.

Un petalo ogni giorno cadde dalla mia corolla…
in ginocchio raccoglievo
fra le lacrime infiniti perché.

Testa china,rosa rossa
mentre io volevo il sole
schiaffi,pugni, calci
urla e mai di carezza una sola mossa…
mentre violente erano persino le sue parole.

Mi teneva fra le mani
fiore reciso…credevo per amore…

Lo guardavo e ancor temevo di pungerlo con le mie spine….

Soffrivo per lui…
per quel suo strano cuore…

Sentii il sangue colare fra le mani…
Ero stata io a procurargli il dolore?

Io a far
diventare di tempesta il suo umore?

Capi’, a sera, nella mia sera, mentre la linfa volava via da me,
che quel mio sole
mi aveva immolata
sull’altare del suo malato amore.

 

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