Una garibaldina in convento
Enrichetta Caracciolo di Forino (Napoli, 17 febbraio 1821 – Napoli, 17 marzo 1901)
Il Risorgimento è sempre stato considerato un fenomeno prevalentemente maschile solo ultimamente la prospettiva è stata ribaltata, considerando quante donne si sono prodigate per l’nità d’Italia.
Grazie a questi nuovi punti di vista che si vanno diffondendo, abbiamo riscoperto il nome di una di queste misconosciute eroine, quello di Enrichetta Caracciolo dei Principi di Forino.
Nonostante che il suo libro di memorie Misteri del chiostro napoletano fosse stato poi tradotto in sei lingue, in seguito di lei si perse la memoria, tanto che il suo nome resta sconosciuto ai più, eppure la sua è una storia particolare di questo periodo e ne incarna molti aspetti.
Figlia di un nobile napoletano e quinta di sette femmine, alla morte del padre che sembra avere un debole per lei, cade sotto la tutela della madre che invece mal la sopporta. Figura complessa quella della madre, che Enrichetta, nonostante tutto riesce a comprendere ed a compatire, vittima a sua volta di un sistema che la dà in sposa, fanciulla sedicenne ad un uomo di quarant’anni e tuttavia, carnefice della figlia.
Quando la madre desiderosa di risposarsi trova un partito conveniente, il destino di Enrichetta è segnato; con una serie di manovre, la madre riesce a collocarla (all’inizio solo come educanda) nel Monastero di San Gregorio Armeno di Napoli, una specie di feudo di famiglia, dove alcune zie della fanciulla si trovano a ricoprire una posizione di prestigio. Successivamente, una serie di circostanze e la pressione materna obbligano la ragazza a prendere il velo. La descrizione della macabra cerimonia che ella ne fa nel suo libro è di impatto fortissimo, mostrando tutta la forza della coercizione che le pervade l’animo. Ma Enrichetta è diversa da tutte le altre disgraziate che, obtorto collo, vi sono rinchiuse. Per prima cosa è immenso in lei il senso della dignità che la spinge a non mischiarsi con le beghe e le meschinerie quotidiane che sono l’unica o quasi ragione di vita di queste povere recluse.
Inoltre, cosa molto rara, Enrichetta è una donna colta; ha ricevuto un’eccellente educazione classica, che continua a coltivare, nonostante le vessazioni che questo suo comportamento, a dir poco anomalo, le procura da parte delle altre religiose. Il racconto che essa fa dell’ignoranza delle suore e dei loro confessori è agghiacciante; donne di mobilissima famiglia praticamente analfabete, preda di assurdi pregiudizi ed accecate, al tempo stesso, dai privilegi che pervengono loro dal sangue nobiliare.
Un esempio solo basta. Un pomeriggio, la nostra giovane suora è immersa nella lettura di un libro proibito, ossia le memorie di Napoleone Bonaparte, che è riuscita a far entrare di contrabbando in convento. La badessa, informata dalle delazioni delle altre monache irrompe nella cella di Enrichetta e le impone di mostrarle il libro che sta leggendo. Tremando, ella glielo porge ma….. niente paura! L’incolta badessa ha guardato il frontespizio, ha letto Memoriale di Sant’Elena e questo le basta ed infatti esclama: ‹‹Ah, bene, bene le memorie di Sant’Elena la madre di San Costantino! Continuate pure figliola, ottima lettura›› aggiungendo poi quasi tra sé: ‹‹Questa povera Caracciolo, sempre vituperata!››.
Di fronte a tanta crassa ignoranza Enrichetta si sente cadere le braccia ma continua a studiare non curandosi di manifestare il suo pensiero politico e procurandosi così la fama di essere un’eretica ed una rivoluzionaria. Intanto, incoraggiata dal clima di liberalità che spira ovunque e che sfocerà nei moti del ‘48, comincia a comprare, senza tema di essere vista, i giornali rivoluzionari che tanto scandalizzano le suore: al contempo prosegue nella sua lotta per ottenere la dispensa dai voti e, nel 1846 presenta una supplica a Papa Pio IX, ritenuto allora un Pontefice progressista, per potersi allontanare dal convento (almeno per un certo periodo) con la scusa della salute malferma, denunciando altresì la barbarie dei voti monastici imposti a tante giovani donne.
Questo le attira i fulmini dell’ottuso e reazionario Arcivescovo di Napoli, Riario Sforza, che comincia a perseguitarla e le nega il nulla osta per uscire andando anche contro il parere papale.
Allo scatenarsi della repressione borbonica, Enrichetta brucia i suoi scritti compromettenti per non mettere in pericolo la famiglia, anche perché, nel frattempo, il Papa le ha concesso di trasferirsi in un conservatorio religioso (ma non in casa della madre come ella aveva richiesto). Anche qui Enrichetta prosegue la sua lotta, scontrandosi con la maggior parte delle suore, schiettamente conservatrici, subendo vessazioni ed imposizioni, come la confisca delle sue predilette opere storiche e la proibizione di scrivere.
Ripiegandosi sulle vite delle Sante (unica lettura concessale), trova che da sempre le donne hanno contribuito alla storia dell’umanità conferendole una particolarissima impronta e questo le da la forza per continuare a scrivere, inviando i frutti del suo pensiero fuori dal convento, nascondendoli, con la complicità di una domestica, nel cesto della biancheria sporca. Alcuni di questi scritti cadono però nelle mani del suo persecutore, l’Arcivescovo Riario Sforza il quale non avendo potuto impedirle di uscire dal convento nel 1849 (il pretesto furono i fortissimi disturbi nervosi di cui Enrichetta soffriva) le nega di ricevere i frutti della sua dote di suora.
La sua lotta contro la tirannide inizia proprio con questa rivolta verso l’imposizione dello stato monacale. Chiesa e monarchia sono l’emblema della repressione e dell’oscurantismo e nel suo pensiero questi due poteri vanno di pari passo. Quindi l’abbattimento di uno significa l’indebolimento dell’altro e questo scopo deve essere perseguito con tutte le forze che si hanno a disposizione.
Nel 1849, durante una delle solite perquisizioni, per fortuna sfuggono all’occhio dei poliziotti, alcune carte cifrate, un pugnale ed una pistola che uno dei suoi cognati le ha affidato e, nonostante le spie che le autorità religiose le hanno messo vicino, la sua lotta può continuare. Con la complicità della madre, ormai pentita del suo comportamento, la giovane lascia il conservatorio e, saputo che si parla di arrestarla, si rifugia a Capua, ma inutilmente.
Nel 1851 viene arrestata e condotta nel ritiro di Mondragone dove, presa dalla disperazione per questa situazione che sembra non offrirle nessuna via di uscita, rifiuta il cibo e pensa seriamente al suicidio, arrivando vicino alla morte per inedia. In effetti, le vessazioni che subisce sono immense e tra le più penose vi è la visita giornaliera dell’untuoso messo del Cardinale, la cui vista la disgusta; ma lei, con una ripresa fisica e morale che ha del miracoloso, scarta l’idea del suicidio, ritenuto una soluzione indegna, continua nella sua lotta segreta nonostante che questo stato penoso di cose duri fino al 1854.
Vistosi negare anche il permesso di vedere la madre morente, Enrichetta progetta la fuga ma, grazie alla mediazione di una zia, la Congregazione dei Vescovi le fa ottenere il permesso di fare la cura dei bagni a Castellamare; ovviamente un pretesto per liberarla dalla persecuzione di Riario Sforza. A questo punto, ella si butta nella cospirazione antiborbonica con tutta sé stessa e torna clandestinamente a Napoli dove, per sfuggire alle occhiute spie di Ferdianando II, cambia in sei anni diciotto abitazioni, riuscendo a gabbare, grazie ad un sistema di controspionaggio elaborato insieme ad alcuni amici, i poliziotti che la cercano.
Quest’incubo ha termine il 7 settembre 1860, con l’entrata di Garibaldi a Napoli. In questo stesso giorno, dopo essere riuscita a stringere la mano al generale, Enrichetta depone su un altare il velo nero.
Il resto ha il sapore di ogni storia a lieto fine perché Enrichetta incontra un garibaldino un po’ attempato (e del resto anche lei ha trentanove anni, età rispettabile per l’epoca) si innamorano e si sposano con rito evangelico, visto che la Chiesa le nega il permesso di convolare a nozze, ritenendola sempre legata ai voti monastici.
Donna notevole dunque, questa nobile napoletana, che non si è mai fatta abbattere dai venti contrari e che pur nelle circostanze più difficili ha continuato il suo lavoro di patriota. In lei infatti, amor di Patria, significa amore, desiderio di libertà. Non può esserci paese civile, così ci fa capire e neppure tanto velatamente, se la libertà viene negata a qualcuno.
Una società dove le donne sono calpestate, usate per contrarre parentadi vantaggiosi o recluse in monastero per non impoverire la famiglia, non ha avvenire. Solo riconsegnando dignità agli oppressi, siano poveri o donne, si potrà parlare di progresso e di modernità. Sicuramente fu per questo motivo che molte delle donne che avevano partecipato in prima persona ai moti risorgimentali, si dedicarono successivamente all’educazione dei giovani e soprattutto delle ragazze, avendo compreso che tutto partiva dal debellare l’ignoranza e che l’istruzione avrebbe condotto, sia pure a piccoli passi, verso un’emancipazione completa.
Cristina di Belgioioso comprese benissimo quanto fosse stato forte il contributo dell’altra metà del cielo alla causa risorgimentale e profeticamente pronunziò le seguenti parole: ‹‹Vogliano le donne felici ed onorate dei tempi avvenire rivolgere tratto tratto il pensiero ai dolori ed alle umiliazioni delle donne che le precedettero nella vita, e ricordare con qualche gratitudine i nomi di quelle che loro apersero e prepararono la via alla non mai prima goduta, forse appena sognata, felicità!››