L’arco di trionfo in un imballo …
«Sarà come un oggetto volante che si animerà nel vento e rifletterà la luce. Le pieghe si muoveranno. Le superfici diventeranno sensuali al tatto e alla vista. Le persone avranno voglia di toccarlo».
Parola di Christo Vladimiroff Javacheff.
Adesso, domando io: davvero nessuno tra voi, in questi giorni, si è chiesto che cosa avrebbe detto Napoleone se, rientrando vittorioso dalla battaglia di Austerlitz, avesse scoperto il suo Arco di Trionfo impacchettato e coperto da 25mila metri quadrati di tessuto al polipropilene ?
O peggio, come avrebbe reagito il generale De Gaulle se al termine della sfilata per la Liberazioneavessi trovato, in place de l’Étoile, quella specie di gigantesco pacco abbandonato invece del monumento-simbolo della potenza militare della Francia?
Prima ancora dell’inaugurazione, avvenuta nei giorni scorsi, il vento della polemica aveva fortemente soffiato su Parigi. Nel mirino, manco a dirlo, il capolavoro postumo di Christo: l’imballaggio dell’Arco di Trionfo che domina gli Champs-Elysées, 50 metri di altezza, 44 di larghezza, 22 di profondità.
Molte sono state le persone che hanno rilasciato commenti ironici, sagaci o peggio ancora, indignati sul web. Ed in effetti, a mio vedere, quel che più indigna di tutta questa faccenda definita comunque artistica, è il costo davvero elevato che è stato sostenuto per la sua realizzazione: un costo che -onde evitare fraintendimenti postumi- tengo a precisare, è stato tutto a carico dell’artista. Perché, badate bene amici, stiamo parlando di ben 14 milioni di euro!
Capite bene che, a questo punto, un’altra domanda sorge spontanea: ma quanti centri di accoglienza, quanti letti, quanti pasti caldi si sarebbero potuti offrire con questa somma, anche solo ai molti clochards parigini i quali, già a partire dai prossimi giorni, si troveranno a dover affrontare un nuovo freddo inverno?
Insomma, davvero in un momento come questo, di pandemia e crisi mondiale, era necessario per la Fondazione Christo, portare a compimento anche questa ultima “opera”? La fondazione, non avrebbe fatto meglio ad aiutare le persone in difficoltà invece di finanziare un monumento tanto effimero?
Sedici giorni: è la durata di vita prevista per l’Arco di Trionfo imballato.
Il 4 ottobre il rivestimento verrà smontato e i visitatori potranno rivedere il museo del Milite Ignoto, gli scudi su cui sono incisi i nomi delle grandi battaglie della Rivoluzione e dell’Impero, i bassorilievi dedicati alla Fanteria, l’Artiglieria, alla Cavalleria e ai generali dell’Armée.
Un capolavoro che adesso, anche se ho avuto modo di vederlo soltanto in foto, così conciato, pare un po’… sinistro. Per avvolgerlo e impacchettarlo ben bene, si è resa necessaria la manodopera di centinaia di tecnici e di operai, uomini che hanno lavorato sospesi da terra ad altezze pericolose, per srotolare fino al suolo e fissare con 3 chilometri di corda rossa riciclabile delle strisce argentee di polipropilene: una materia plastica di sintesi, occorre ricordarlo, nata dalle ricerche di un italiano, l’ingegner Giulio Natta, premio Nobel per la chimica nel 1963.
Fu 60 anni fa che Christo ebbe l’idea d’impacchettare l’Arco di Trionfo: Christo Vladimiroff Javacheff – questo il vero nome dell’artista, nato a Gabrovo in Bulgaria – si era trasferito a Parigi nel 1958 per sfuggire al regime comunista. Qui incontrò Jeanne-Claude Denat de Guillebon,una francese dai capelli rossi nata a Casablanca il suo stesso giorno, il suo stesso mese e il suo stesso anno. Due predestinati, una coppia di artisti, amanti e compagni di vita i cui nomi si fusero in una sigla unica: Christo, appunto.
A partire dagli anni Sessanta Christo e Jeanne-Claude divennero tra i principali esponenti della Land Art, una forma d’arte basata sull’intervento sul territorio naturale, in particolare in grandi spazi come deserti, praterie o laghi. Dagli anni Sessanta in poi la coppia aveva realizzato installazioni molto appariscenti in giro per il mondo: tutte temporanee – costruite e poi smontate – di cui restano foto e video.
La loro prima importante opera la realizzarono proprio a Parigi, nel 1961: era un muro di barili che bloccava rue Visconti e fu interpretata come una protesta nei confronti del muro di Berlino, costruito quell’anno. Sempre a Parigi, fu installata una delle loro opere più famose, dopo nove anni di richieste e negoziati, quando l’allora sindaco di Parigi Jacques Chirac diede loro il permesso di imballare il più vecchio ponte della città: Pont Neuf. L’imballaggio iniziò il 25 agosto e fu mantenuto fino al 22 settembre del 1985. A quel tempo, furono usati 40 mila metri quadrati di telo di poliestere giallo ocra.
Poi i due passarono alle opere che costruirono la loro fama: nel ’70 un’immensa tela arancione in una valle del Colorado; nel ’76, dopo la morte di Mao, una striscia di tessuto giallo lunga 40 chilometri in California per rappresentare la Muraglia cinese; insieme hanno realizzato impacchettamenti spettacolari, ad esempio quello della scogliera di Little Bay in Australia e di un gruppo d’isole al largo della Florida.
Una delle opere più famose è stata realizzata tra il 1972 e il 1976: si tratta di Running Fence, una serie di ampi teloni di nylon bianco appesi a un cavo d’acciaio sorretto da oltre 2000 montanti che formavano un lungo ‘serpente‘ da est a ovest per quasi 40 chilometri nella campagna a nord di San Francisco, in California.
E ancora, nel 1970 e 1974 furono impacchettati i monumenti di Leonardo da Vinci e di Vittorio Emanuele II a Milano e la Porta Pinciana a Roma. A seguire, nel 1995 un altro impacchettamento, quello del Reichstag di Berlino. Avanti così fino all’ ultima mastodontica opera di Christo, realizzazione nel 2016 con Floating Piers sul Lago d’Iseo che consisteva in una serie di passerelle galleggianti sull’acqua.
Imballare un monumento, per i Christo significava dargli una dimensione diversa rispetto a quella quotidiana, isolarlo dal contesto, renderlo prezioso come un regalo, più suggestivo ed evidente di quanto fosse prima.
Pacchi regalo molto costosi, come dicevamo prima, ma sempre autofinanziati; infatti, i capolavori della «ditta» Christo sono stati possibili grazie a un’accorta strategia di marketing culturale.
Ad esempio, per il progetto dell’Arco di Trionfo la casa d’aste americana Sotheby’s organizzerà a Parigi una vendita di schizzi, collage, maquettes e litografie che illustrano le varie tappe dell’esposizione temporanea.
L’azienda è sicura che l’incasso coprirà le spese anche questa volta. È stato così per tutte le opere precedenti della coppia… che dire; speriamo che continuino così?
Questione di gusti … o anche di priorità?