La cronica
La sera stava calando lentamente sulla città di Firenze, d’altronde si era ormai in autunno e le giornate si stavano accorciando, quindi, si disse la donna elegantemente vestita e dai capelli ingrigiti, che si aggirava per le stanze del bel palazzotto signorile, quindi era ora che il suo testardo marito, smettesse di scrivere, e di rovinarsi la vista.
Confortata da questa considerazione, non si curò nemmeno di bussare, ma spalancò con un gesto deciso la porta della stanza che suo marito aveva adibito a studio e si piazzò con un gesto determinato davanti all’uomo, ormai avanti con gli anni, che vedendola le rivolse uno sguardo affettuoso anche se non privo di sofferta pazienza.
“E bravo messer lo mio sposo, proprio bravo a continuare così”, fece lei con voce esasperata, “volete davvero rovinarvi la vista e per cosa poi?”, chiese mentre allungava la mano verso la pila di fogli che si accumulava accanto al braccio del suo consorte.
“Cronica…cronica….che diavolo avete scritto….ah sì…cronica delle cose occorrenti nei tempi suoi di Messer Dino Compagni, bel titolo messer marito, ma a che serve?”
L’uomo sospirò, quasi che le parole della moglie lo avessero riportato sulla terra.
“Lascia stare Cecca, tu queste cose non le puoi capire…io scrivo perché non posso fare diversamente e qualcuno che mantenga la memoria ci vuole, sai moglie mia?”
“La memoria,” fu la risposta un po’ sprezzante della donna, “ma a chi volete che importi ormai di come sono andate le cose? Dovreste essere grato di aver scampato l’esilio e le pene pecuniarie, e per ben due volte, sicuramente qualche Santo in Paradiso ce lo dovete avere, ad altri, come il vostro amico Alighieri, le cose sono andate peggio, per non parlare del vostro amato Giano della Bella”.
Aldobrandino, detto Dino, Compagni, non rispose e si limitò a scrollare il capo, d’altronde cosa poteva dire davanti alle sensatissime parole di sua moglie?
A lui era andata di lusso in due occasioni e soprattutto nella seconda, una bella parte l’avevano giuocata proprio le parentele che aveva acquisito con il suo secondo matrimonio.
Tutti guelfi neri i familiari della sua Cecca, i Benvenuti, e sicuramente era grazie a loro che l’esilio non gli era stato comminato.
Però…però… forse dire così non era proprio giusto e non era stato solo quello perché, e lo stava scrivendo proprio un momento prima ..“niuno ne campò degli sconfitti che non fusse punito: non valse parentado, né amistà; ne pena si potea minuire né cambiare a coloro a cui determinate erano: nuovi matrimoni non valsero: ciascuno amico divenni nimico; i fratelli abbandonavano l’un l’altro, il figliolo il padre; ogni amore, ogni umanità si spense”.
Si, erano stati momenti terribili e lui se n’era dovuto stare acquattato come un topo nella tana, silenzioso e buono, facendosi dimenticare e non tentando di ricoprire nessuna carica pubblica per tanti anni, ed era stata una grazia non da poco, che il suo status di mercante dell’Arte di Por Santa Maria non fosse stato toccato, tanto che anche adesso poteva vantare una buona agiatezza.
Ma lui doveva scrivere, ricordare perché davvero i tempi che aveva attraversato erano stati irripetibili e lui li aveva vissuti tutti. Come non ricordare che era stato tra i priori che avevano ricevuto in anteprima e sicuramente per intervento celeste, la notizia della vittoria di Campaldino?
Aveva ricoperto cariche onorifiche ed anche subito prima di quell’orrendo pasticcio che era costato l’esilio al suo amico Dante era stato nuovamente priore. Allora ne era stato orgoglioso, ma alla luce successiva dei fatti, sarebbe stato meglio che quella volta non fosse stato eletto, e meno male che una norma statuaria vietava che si potessero avviare procedimenti giudiziari contro i Priori ed Gonfaloniere di Giustizia nell’anno successivo alla decadenza dalla loro carica, altrimenti anche a lui l’esilio non glielo avrebbe tolto nessuno.
Visto che Dino non sembrava darle retta, Monna Cecca se ne andò brontolando ed esortando il marito a non consumare troppo olio nella lucerna che tanto a breve la cena sarebbe stata pronta e lui riprese in mano la penna, lieto che stavolta il rimbrotto coniugale fosse stato breve.
I ricordi tornavano in frotta e si allineavano sulla carta, coperta dalla sua scrittura ordinata… troppe erano le cose da non dover cancellare e la sua penna sarebbe servita a questo.
Dopo Campaldino, ah che vittoria meravigliosa e che periodo di gioia era stato quello, lui aveva stretto amicizia con Giano, il ricco banchiere che aveva la torre di famiglia nei pressi della chiesa di San Martino.
Giano era stato un individuo eccezionale, Giano che faceva parte di una famiglia antichissima e nobile, ma sensibilissimo alle ingiustizie che i suoi pari facevano quotidianamente ai componenti del popolo, Giano, ricco e potente ma che metteva ricchezza e potenza per mettere un freno ai Magnati che imperversavano impunemente.
La situazione era incandescente, ed i fiorentini non erano più disposti a farsi mettere sotto il tallone da questi prepotenti. Ormai non si parlava più di Guelfi e Ghibellini, ma solo di Magnati e Popolani, ovvero la nuova borghesia mercantile, queste erano le nuove fazioni che ogni giorno si affrontavano. Il ceto dirigente andava rinnovato, questo era poco ma sicuro e Giano aveva approfittato di un diverbio proprio con un altro magnate per scendere in campo.
Davvero Betto Frescobaldi, aveva fatto la sua, quando aveva ingiuriato Giano per quel suo voler essere dalla parte del popolo e gli aveva preso il naso fra le dita in segno di spregio, minacciandolo di mutilarlo. Era stata la scintilla che aveva acceso il fuoco e quando, poco dopo era stato eletto priore, Giano ne aveva approfittato per far redigere quelli che erano stati denominati “Ordinamenti di Giustizia”.
Nessuno che appartenesse a famiglia magnatizia, poteva a quel punto accedere alle cariche pubbliche, nessun grande poteva fare ingiuria ad un popolano e via di questo passo e le pene previste erano severissime ed anche, in alcuni casi, davvero assurde.
La ricca borghesia mercantile aveva esultato ed era stata un tutt’uno con Giano, ma i potenti tramavano nell’ombra ed alla fine erano riusciti nel loro intento. Avevano cercato, prima di tutto, di farlo uccidere da un sicario, ma poi la paura della sommossa popolare li aveva fatti desistere ed erano passati ad altro.
Occorreva screditarlo perché, dicevano… “percosso il pastore, fiano disperse le pecore”…ed avevano avuto ragione.
Anche i borghesi che dovevano a Giano la sua fortuna avevano iniziato a brontolare contro la sua politica fiscale che non guardava in faccia nessuno e poi e poi… ci aveva pensato Corso Donati a far scoccare la scintilla.
Il Barone aveva assalito un suo congiunto, Simone Galastrone, ma il podestà, che allora era un milanese, tratto in inganno dalle scritture contraffatte che un giudice corrotto gli aveva portato, aveva assolto il Donati e condannato l’aggredito.
Ovviamente la rivolta popolare era scoppiata e Giano, leale come al solito, era intervenuto a difendere il povero Podestà che era stato non complice, ma ingannato.
“Davvero” si disse Dino, “l’onesta raramente paga, perché con questa mossa Giano se li era ritrovati tutti contro…tutti indistintamente che lo accusavano di corruzione, di favoritismi e via discorrendo”.
Fiducioso e onesto, aveva dato retta a chi gli aveva consigliato di allontanarsi momentaneamente dalla città ed era stata la sua rovina e da quell’auto esilio non aveva più fatto ritorno. Non era certo finito in miseria, anzi a Parigi, dove alla fine era emigrato, aveva accresciuto ancora di più i suoi beni, ma Firenze lo aveva messo per sempre al bando.