Il poeta che scrisse con il sangue
Pablo Neruda è lo pseudonimo che Ricardo Eliecer Neftalí Reyes Basoalto scelse per onorare lo scrittore e poeta ceco Jan Neruda (1834-1891), cantore degli umili.
La sua enorme produzione poetica, ricca di una rara densità metaforica, abbraccia le tematiche più rilevanti della vita e spazia dalla natura alla solitudine umana, dall’amore alla politica.
Poeta timido e ostinato, la cui personalità affascinante si coglie proprio in quella ritrosia e desiderio di isolamento e silenzio, ha lasciato un segno indelebile nella letteratura contemporanea con versi che, come Federico Garcìa Lorca sottolineò, sembrano essere stati scritti «più che con l’inchiostro, con il sangue».
La sua figura, nell’ambito poetico, può essere considerata una delle più significative del Novecento per quel ritmo continuamente mutevole e per l’impegno politico profuso nella maggioranza delle sue liriche che catturano con rara sensibilità colori, luci e fruscii.
Nato a Parral, nel cuore del Cile, il 12 luglio 1904, Ricardo si guadagnò la fama di poeta del popolo per l’impegno civile e politico contro i regimi dittatoriali instauratisi nel suo paese e nel resto dell’America Latina, abbracciando il Comunismo. Cio che lo condannò perfino all’esilio. Grazie alle sue numerose raccolte di poesie, ispirate all’amore, e ai coloro e ai profumi della quotidianità, riceverà il Premio Nobel per la Letteratura nel 1971. Tornerà in Cile l’anno seguente, ormai gravemente malato, e assisterà impotente al colpo di Stato dell’11 settembre del sanguinario dittatore, il generale Augusto Pinochet, e alla morte del suo grande amico Allende.
In attesa di poter lasciare il Cile, Pablo Neruda si spegnerà il 23 settembre del 1973. La sua morte resta ancora avvolta nel mistero.
«Ora, lasciatemi tranquillo.
Ora, abituatevi senza di me.
Io chiuderò gli occhi
E voglio solo cinque cose,
cinque radici preferite.
Una è l’amore senza fine.
La seconda è vedere l’autunno.
Non posso vivere senza che le foglie
volino e tornino alla terra.
La terza è il grave inverno,
la pioggia che ho amato, la carezza
del fuoco nel freddo silvestre.
La quarta cosa è l’estate
rotonda come un’anguria.
La quinta cosa sono i tuoi occhi.
Matilde mia, beneamata,
non voglio dormire senza i tuoi occhi,
non voglio esistere senza che tu mi guardi:
io muto la primavera
perché tu continui a guardarmi.
Amici, questo è ciò che voglio.
E’ quasi nulla e quasi tutto.
Ora se volete andatevene.
Ho vissuto tanto che un giorno
dovrete per forza dimenticarmi,
cancellandomi dalla lavagna:
il mio cuore è stato interminabile.
Ma perché chiedo silenzio
non crediate che io muoia:
mi accade tutto il contrario:
accade che sto per vivere.
Accade che sono e che continuo.
Non sarà dunque che dentro
di me cresceran cereali,
prima i garni che rompono
la terra per vedere la luce,
ma la madre terra è oscura:
e dentro di me sono oscuro:
sono come un pozzo nelle cui acque
la notte lascia le sue stelle
e sola prosegue per i campi.
E’ che son vissuto tanto
e che altrettanto voglio vivere.
Mai mi son sentito sé sonoro,
mai ho avuto tanti baci.
Ora, come sempre, è presto.
La luce vola con le sue api.
Lasciatemi solo con il giorno.
Chiedo il permesso di nascere.»
Pablo Nuruda, Chiedo silenzio