Omaggio a un esteta
«Bisogna fare la propria vita, come si fa un’opera d’arte. Bisogna che la vita d’un uomo d’intelletto sia opera di lui. La superiorità vera è tutta qui »
(Il Piacere, Gabriele D’Annunzio)
Parlare di Gabriele D’Annunzio non è mai facile, perché difendere la sua figura è impresa ardua, troppo impantanata nella retorica umbertina, come in quella fascista.
Il poeta vate costruì la sua immagine sulle insicure fondamenta di un’Italia piccolo borghese; volle addirittura edificare la sua vita come un’opera d’arte. E ci riuscì.
Fu con questa idea che egli immaginò tutte le sue azioni eroiche, dal volo su Vienna nel 1918 all’impresa di Fiume; con questo spirito addobbò la villa che assunse a dimora sulle rive del Garda, trasformandola in un monumento alla sua gloria e la ribattezzò Vittoriale degli Italiani.
Rimane il fatto che D’Annunzio rappresenta, insieme a Giovanni Pascoli, il massimo esponente del Decadentismo italiano, un forte movimento letterario a livello europeo che forse in Italia si espresse in tono minore, ma che comunque trasse ispirazione da letterati quali Baudelaire, Verlaine, Mallarmé o Rimbaud.
E rimane altresì il fatto che l’opera d’annunziana mostri spesso un suo aspetto molto convincente. Perché, malgrado tutto, D’Annunzio poeta lo fu davvero!
È il caso per esempio di Notturno: scritto su striscioline di carta con gli occhi bendati dopo un grave incidente aereo che lo aveva reso momentaneamente cieco e nel quale il suo compagno di volo era morto; una prosa lirica che tralascia la retorica per assumere un tono che appare più sincero e personale.
Ma è soprattutto nella raccolta Alcyone che troviamo la vera poesia, come nella celeberrima La pioggia nel pineto, poesia dedicata ad Eleonora Duse, l’Ermione del canto, il suo grande amore.
La lirica in versi liberi fu composta in Versilia nel 1902. La maestria con la quale il poeta utilizza le figure retoriche e quelle di stile raramente appare così poco forzata come in questa poesia ed ha, come risultato, un sorgere di immagini, di odori e di suoni che ci immergono in un universo naturale. Ad essa si potrebbe associare la celebre definizione che Pascoli aveva dato dell’arte poetica: «uno sguardo vergine sulle cose».
Dimenticando per un istante le reminiscenze scolastiche che ci hanno costretti a pensare a D’Annunzio come ad una caricatura letteraria, possiamo inoltrarci tra gli alberi di quel mondo fuori dal tempo nel quale la natura parla, respira, vive e restare fermi ad ascoltare.
«Taci.
Su le soglie del bosco non odo parole che dici umane;
ma odo parole più nuove che parlano gocciole e foglie lontane.
Ascolta.
Piove dalle nuvole sparse.
Piove su le tamerici salmastre ed arse,
piove su i pini scagliosi ed irti,
piove su i mirti divini,
su le ginestre fulgenti di fiori accolti,
su i ginepri folti di coccole aulenti,
piove su i nostri volti silvani,
piove su le nostre mani ignude,
su i nostri vestimenti leggeri,
su i freschi pensieri che l’anima schiude novella,
su la favola bella che ieri t’illuse, che oggi m’illude, o Ermione.
Odi?
La pioggia cade su la solitaria verdura
con un crepitìo che dura e varia nell’aria secondo le fronde più rade,
men rade.
Ascolta.
Risponde al pianto il canto delle cicale
che il pianto australe non impaura, né il ciel cinerino.
E il pino ha un suono, e il mirto
altro suono, e il ginepro altro ancora,
stromenti diversi sotto innumerevoli dita.
E immersi noi siam nello spirto silvestre, d’arborea vita viventi;
e il tuo volto ebro è molle di pioggia come una foglia,
e le tue chiome auliscono come le chiare ginestre,
o creatura terrestre che hai nome Ermione.
Ascolta, ascolta.
L’accordo delle aeree cicale
a poco a poco più sordo si fa sotto il pianto che cresce;
ma un canto vi si mesce più roco
che di laggiù sale, dall’umida ombra remota.
Più sordo, e più fioco
s’allenta, si spegne.
Sola una nota ancor trema, si spegne,
risorge, trema, si spegne.
Non s’ode voce dal mare.
Or s’ode su tutta la fronda crosciare
l’argentea pioggia che monda,
il croscio che varia secondo la fronda più folta, men folta.
Ascolta.
La figlia dell’aria è muta; ma la figlia del limo lontana,
la rana, canta nell’ombra più fonda,
chi sa dove, chi sa dove!
E piove su le tue ciglia, Ermione.
Piove su le tue ciglia nere
sì che par tu pianga ma di piacere;
non bianca ma quasi fatta virente, par da scorza tu esca.
E tutta la vita è in noi fresca aulente,
il cuor nel petto è come pesca intatta,
tra le pàlpebre gli occhi son come polle tra l’erbe,
i denti negli alveoli son come mandorle acerbe.
E andiam di fratta in fratta, or congiunti or disciolti
(e il verde vigor rude ci allaccia i malleoli c’intrica i ginocchi)
chi sa dove, chi sa dove!
E piove su i nostri volti silvani,
piove su le nostre mani ignude,
su i nostri vestimenti leggeri,
su i freschi pensieri che l’anima schiude novella,
su la favola bella che ieri m’illuse, che oggi t’illude,
o Ermione .»
L’autore riesce quasi a ricreare attorno al lettore l’atmosfera lieta e magica solcata dallo scroscio delle gocce nel bosco, attraverso un gioco di incastri, di rime e di assonanze interne, mettendo insieme degli elementi che suscitano emozione ed incanto: sembra quasi di respirare l’aria fresca e verdeggiante che si muove tra le foglie e i rami bagnati. La donna Ermione accompagna il poeta, lo scorta sotto la pioggia e finisce per diventare, insieme a lui, un tutt’uno con le piante e gli spiriti silvestri: una percezione profonda della natura circostante che finisce per diventare parte dell’uomo, fondendovisi.
Il senso chiave è senza dubbio l’udito. Rumori della natura che si trasformano in musica, versi che diventano canti e pianti melodiosi; ogni elemento boschivo è in realtà un meraviglioso strumento suonato dalla pioggia.
Abbiamo tutti bisogno di un po’ di silenzio per poter riflettere su quanto e come irrimediabilmente stiamo danneggiando le nostre terre e l’intero pianeta. Abbiamo tutti bisogno di ricordare quanto sia importante agire con responsabilità, affetto e altruismo nel rispetto di madre natura nonché del nostro prossimo: troppo spesso li calpestiamo, noncuranti delle conseguenze.