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La mia campagna – I episodio

Ricordando la Maremma Toscana

1° Episodio

Quando io ero piccola, i miei nonni ed i miei genitori lo chiamavano “Il Poggio”, e parlo di oltre sessanta anni fa. Anzi il suo nome originario pare che fosse “Poggio alla Civetta”. Loro non dicevano “Si va a Castagneto”. Dicevano “Si va al Poggio”. Forse lo chiamavano così per distinguerlo da un altro appezzamento di terreno, più piccolo, detto “Le Bozze”,  sempre di proprietà dei miei nonni, che si trovava al piano, lungo la via Bolgherese.

Nel 1941, alla morte della mia nonna, “Il Poggio” passò a mio padre e nel 1959 a me.

Il mio Poggio era un bel podere, di venti ettari, con circa ottocento piante di ulivo, che abbracciava buona parte di una collinetta oltre il Castello di Segalari, in vista del mare. Il fabbricato, posto in posizione dominante, sul cocuzzolo, era un tipico casale di campagna a due piani. 

Una scala esterna, che terminava con un balconcino coperto, conduceva all’abitazione del mezzadro al primo piano. Sotto la scala trovava posto il pollaio. Al terreno, in facciata, c’erano la stalla e la carraia; sul retro un’altra carraia e la cantina.

Staccati dall’edificio principale tre piccoli manufatti: la cisterna, per raccogliere l’acqua piovana, il forno ed il “castro” (porcile). Davanti alla facciata correva la strada che dal Crocino conduceva in località Lungagnano e che separava il fabbricato dall’aia. Sul lato destro dell’edificio si affacciava la piccola abitazione padronale, su due piani e, davanti ad essa, un giardino recintato al quale si accedeva da un cancelletto in facciata, sul cui pilastro troneggiava maestosamente un leone di coccio rossastro. Il leone sembrava stare di guardia all’ingresso della foresta e tale poteva definirsi il giardino, che non era ben tenuto, anzi: c’erano degli abbozzi di aiuole, disegnate con sassi, ma l’erba e le piante straripavano dovunque. 

Una grande palma che, nel mio ricordo, rappresenta tuttora il simbolo del luogo (come per Napoli il mitico pino) conferiva un tocco d’esotico all’insieme. Non se ne vedevano molte di palme su quelle colline, pini e cipressi si, e querce, lecci e cerri. 

Ma una palma così grande non ce l’aveva nessuno. C’era l’alloro, un melo, un pero, un mandorlo, un nespolo, un albero di giuggiole e, in fondo, una bella pergola di uva fragola. E soprattutto tanti grandi oleandri dai fiori rosa. 

Dal terrazzino della camera da letto al primo piano, che si affacciava proprio davanti alla palma, nelle giornate limpidissime di fine settembre, quando la foschia lasciava campo libero ad un’arietta più tersa e frizzantina, si potevano scorgere le isole dell’Arcipelago Toscano.

Mio padre sosteneva che, dietro ad esse, si riusciva ad intravedere anche il “dito” della Corsica (cioè quel promontorio che sembra un indice puntato verso la Liguria); ma, a dire il vero, io, quel “dito” lì, non sono mai riuscita a vederlo. 

Il nostro piccolo appartamento (due camere da letto, soggiorno, cucina, tre piccoli sgabuzzini e un gabinetto) era arredato molto spartanamente, con gli scarti della casa di città. Non c’era niente di bello che io ora possa rimpiangere, tranne i letti. I letti erano alti e vasti (ci si poteva anche dormire in tre), in ferro battuto. Sulle testate, da capo e da piedi, vi era dipinto lo stemma di famiglia. 

La mattina, al risveglio, quando mamma aveva già socchiuso le imposte, i “Mori” , con gli occhi spiritati e le labbra tumide e sporgenti, dipinte di un rosso lucidissimo, sembravano, nella penombra, dei mostri pronti a ghermirmi.

Il podere era come una piccola “enclave”, circondata da terreni appartenenti a una grossa fattoria, quella della famiglia Moratti, nonché da terreni coltivati direttamente dai loro proprietari, che vi vivevano tutto l’anno, come i Seri. 

Ma giù, in piano, dalla Torre di Donoratico a Bolgheri, e forse anche oltre, era quasi tutto dei Gherardesca. La gente del luogo diceva: «E’ del Conte». «Di chi è quella vigna? Del Conte. E quegli ulivi? Del Conte! E quella macchia? Del Conte»!

Anche il Castello dei Segalari, in collina, era del Conte. A me quel “Conte” mi ricordava tanto il Marchese di Carabas della favola del Gatto con gli Stivali… Infatti anche in quella famosa fiaba i contadini rispondevano al re che era tutto del Marchese di Carabas…

Per poter coltivare un terreno notevolmente scosceso come il nostro, si era fatto ricorso ad un sistema di terrazzamento, con argini sostenuti da grossi ammassi di pietre, chiamati “macie”. La terra veniva lavorata con l’aratro, trainato da una coppia di buoi di razza chianino-maremmana, per la produzione, non abbondante in realtà, del grano occorrente al consumo della famiglia colonica ed altri prodotti simili. Nella parte a monte il terreno, sempre sistemato a terrazze, scendeva ripidamente fino ad un piccolo piano, coltivato a vigna ed a granturco. Questo piano noi lo chiamavamo “la fossa”.

Ma la fossa vera e propria era un piccolo corso d’acqua che, a margine della zona pianeggiante, segnava il confine tra la nostra collina (e la nostra proprietà) e la collina retrostante, ancora più elevata, detta “Poggio alle Querce”, anch’essa con il suo fabbricato sul cocuzzolo. 

La “fossa” in senso lato, era una specie di mio piccolo Eden personale: c’era l’acqua fresca dove immergere i piedi nudi, c’era l’uva da piluccare, i pinoli da raccogliere; lì si potevano scorgere i fagiani (vi scendevano a bere, sconfinando dalla vicina riserva di caccia di Bolghen); lì c’era anche la speranza di avvistare qualche cinghiale! 

Infatti, il Poggio alle Querce (almeno il versante visibile perché il versante opposto è sempre stato per me “L’altra faccia della luna”) era ricoperto da una fitta macchia in cui scorrazzavano i cinghiali. Risale, appunto, agli anni della mia prima infanzia il ricordo del suono del corno di caccia proveniente dalla macchia. Del resto, anche successivamente, si è sempre saputo che i cinghiali, scendendo a bere, spesso arrivavano fino alla nostra vigna e “sciupavano” l’uva. I contadini ne osservavano le tracce sul terreno sabbioso tra i filari delle viti e ciò li metteva di malumore. Io, invece, che non li avevo mai visti (e mai li vidi), non so che cosa avrei pagato per sorprenderne uno, magari a debita e rispettosa distanza…

 

 …. Arrivederci a domani con il 2° episodio!

Anni Trenta, il leone di coccio, la palma, il terrazzino panoramico

 

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Maura Pucci da Filicaja

Maura Pucci da Filicaja vive a Roma da quando era bambina, ma nasce a Firenze novantadue anni fa. Madre di cinque figli affettuosi e nonna di ben dieci splendidi nipoti, è una signora che nutre da sempre grandi interessi. Due sonno state le passioni costanti che l’hanno accompagnata nella vita: la musica e la lingua italiana. Da quest’ultima deriva il suo più alto piacere, quello della scrittura. Come ella sostiene, famiglia e passioni sono state il “motore attivo” della sua longevità…

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