La mia campagna – II episodio
Ricordando la Maremma Toscana
2° Episodio
La famiglia colonica era inizialmente composta dal vecchio “capoccia”, da sua moglie la “massaia”, due dei tre loro figli maschi (il più giovane se n’era andato in cerca di una vita migliore), le due nuore e cinque ragazzini. Il raccolto, all’epoca, veniva suddiviso in parti eguali tra proprietario e mezzadro e, per Natale e per Pasqua, ci spettavano i cosiddetti “obblighi” (prosciutto, capponi, polli e uova). Infatti, sia i maiali che gli animali da cortile erano di proprietà esclusiva dei mezzadri e gli “obblighi” derivavano dal fatto che questi animali venivano nutriti con i prodotti del fondo.
Talvolta gli “obblighi” ci arrivavano a Roma: ciò accadeva quando qualche castagnetano veniva dalle nostre parti, altrimenti ce li conservavano e ce li davano al momento del nostro arrivo.
Con la famiglia colonica, sul podere da tanti anni, c’era un’ottima intesa e ci volevamo bene come se fossimo parenti, ma nonostante la familiarità, erano sempre rispettosi nei confronti dei miei. La massaia, la Dusola, era vecchia e rugosa, le piaceva stare “a veglia” a chiacchierare e mi ricordava la nonna delle novella di Emma Perodi. Anche quella, d’altro canto, era una vecchia contadina toscana e, se viveva nel Casentino anziché in Maremma, non cambiava, in fondo, gran che.
Era gente semplice ma piena di buon senso. I vecchi erano analfabeti, i figli avevano fatto la terza elementare e non sapevano più scrivere (“Un mi ricordo più nulla!” dicevano), i ragazzi facevano le elementari. Uno di loro, il più grande, arrivò fino alla 6° e ciò mi riempi di stupore perché a Roma la 6° elementare non esisteva.
Anche mia madre era piena di ammirazione quando mi parlava di lui: «Pensa! -diceva- ha fatto la 6a!». Ed infatti era l’unico a mandarci di tanto in tanto una cartolina di saluti, a nome di tutta la famiglia, con la tipica scrittura ondivaga di coloro che non hanno troppa dimestichezza con la penna. Comunque il comportamento dei miei era, nei loro confronti quanto più amichevole possibile (oggi si direbbe “democratico”). Papà, magari, dall’alto della sua autorità di ufficiale dei Carabinieri stava un po’ di più sulle sue.
Ma mamma… mamma letteralmente si trasformava, era uno spettacolo! Snob irriducibile e Classista, una volta arrivata lì, non sembrava più la stessa persona. Lei, fiorentina, si metteva a parlare il dialetto locale (pisano-livornese) come se non avesse mai fatto altro nella vita.
«Mi dispiace -diceva- che ‘un si pole mai venire per Ceppo (Natale). Garberebbe anche a me passare le feste ‘on voi!».
Non dico che diventasse becera, ma poco ci mancava… Quante volte le è scappato detto, disgustata di qualcosa: “che troiaio!”
Scherzava sempre, a fatti ed a parole, con tutti. «Che simpaticona la padrona! -dicevano- fa sempre la burletta!». Io, seppure piccola, la guardavo ammirata di tanto fregolismo. Lei, stupita a sua volta del mio stupore, «Vedi -mi diceva- la vera signora è quella che sa stare con tutti, nobili e contadini, e tutti sa mettere a loro agio».
Questo mi faceva, in fondo, molto piacere. Infatti io stavo bene, anzi benissimo, con i ragazzi dei contadini e loro con me, e ciò stava a significare che anch’io sarei divenuta una “vera signora” come la mia mamma.
Ancora oggi sono convinta che mia madre non recitasse una parte e che fosse assolutamente sincera: era, per carattere e temperamento, estroversa ed esuberante e, probabilmente, non le pareva vero di potersi liberare, almeno una volta l’anno, delle consuete vesti di signora per bene.
La massaia e le nuore, e queste ancorché giovani, vestivano sempre di scuro, con abiti lunghi ed informi e portavano in testa la “pezzola” nera. Ai piedi calzavano scarponcini di vacchetta, alti fino alla caviglia, senza calze.
Poi, un bel giorno, era di domenica, vidi la Pia, una delle due nuore, che andava in paese: finalmente a testa scoperta, aveva una bella corona di trecce dietro al capo, un paio di sandali neri e un vestito, corto e attillato in vita, di cotonina blu con piccoli fiori bianchi. Sembrava molto più giovane e bella! Questo non me lo sarei mai immaginato!
Ero così ben inserita in quel mondo rurale, almeno durante la mia permanenza in campagna, che non rilevavo mai troppo la differenza di abitudini, di educazione, d’istruzione tra noi e loro. Qualcosa, però, nei loro comportamenti, aveva colpito la mia fantasia. I maschi adulti della famiglia, quando tornavano a casa dai campi, verso le nove del mattino, si sedevano a tavola e facevano colazione con formaggio, prosciutto e pomodori. Ed io chiedevo a mamma: «Ma perché appoggiano il braccio col gomito sul tavolo e tu mi dici sempre che non si deve fare? E perché non mangiano il caffé e latte con i biscotti come noi?». E lei mi rassicurava che andava tutto bene: «Un ti preoccupare che qua si usa ‘osi!».
Un’altra cosa mi stupiva. Quando, in occasione di comunioni o di matrimoni della gente del posto, portavamo un regalo, il pacco non veniva mai aperto. Senza sapere che cosa contenesse esclamavano: «Che bello! ‘Un si doveva incomodare! L’ho gradito dimolto!». E ci congedavano, senza aprirlo. Si restava col dubbio che quell’oggetto ce l’avessero di già, o non gli servisse o non gli piacesse affatto. Ma tanto non l’avremmo saputo mai.
Mi stupivano anche le loro camere da letto, sempre immerse nel buio anche di giorno. Persiane sbarrate, vetri chiusi, scurini accostati. Forse lo facevano per non sciuparle con la luce del sole. Per le camere da letto dovevano nutrire una vera passione. La cucina, infatti, attraverso gli anni e addirittura i decenni, rimase sempre quella: la madia per fare e conservare il pane, il tavolo quadrato in mezzo alla stanza, il focarile annerito, l’armadio a vetrina nella quale erano infilate foto di matrimoni e dei figli vestiti da soldato.
Ma le camere no, le camere non erano le stesse! Di tanto in tanto ci invitavano a visitarle per metterci a parte dei miglioramenti apportati all’arredamento… Nemmeno in occasione di queste visite le finestre venivano aperte ed entravamo in quelle camere vastissime a lume di candela, in un’atmosfera di suspence.
Così, in penombra, attraverso quella luce fioca e rossastra, potevamo constatare (ed ammirare) che i vecchi letti di ferro, il canterano e i due altissimi comodini scompagnati erano stati sostituiti da una vera camera completa, di legno lucido, con cassettone, armadio a specchio a due ante e comodini più bassi (“L’abbiamo comprata a Cecina!”dicevano con soddisfazione).
E con il trascorrere degli anni, in una continua “escalation” i comodini divenivano sempre più bassi, le ante a specchio dell’armadio sempre più numerose (“L’abbiamo comprata a Cascina!” dicevano con malcelato orgoglio), le coperte sempre più sgargianti e ricche di volants, mentre cominciavano a fare la loro apparizione in mezzo al letto delle bambole sontuose.
Da quelle visite ritraevo l’impressione che loro, dopo tutto, se la passassero meglio di noi che, non solo a Castagneto, ma anche a Roma, avevamo da sempre gli stessi mobili e non ci potevamo permettere il lusso di cambiarli.
…. Arrivederci a domani con il 3° episodio!