Le vostre storie,Racconti

La mia campagna – III episodio

Ricordando la Maremma Toscana

3° episodio

D’inverno non avevamo nessun contatto con loro (la famiglia colonica): mio nonno, anche perché era anziano, non si spostava mai da Firenze; nemmeno papà si muoveva, sia perché troppo impegnato dal servizio sia perché, allora, 250 chilometri sembravano una grande distanza ed il viaggio era talmente complicato (come racconterò poi) che non valeva la pena di spostarsi se non per una lunga permanenza. C’era, quindi, a far da tramite, tra noi e la famiglia colonica, un mitico personaggio, il Cavalier Merlini. Per quali meriti fosse stato nominato Cavaliere è sempre rimasto per me un grande mistero. Era un omaccione, con due grossi e folti baffi brizzolati, gli occhi vispi dietro gli occhiali, un cappello di feltro sempre in testa, anche d’estate, ed un bastone che non gli serviva a niente perché camminava benissimo.

Risiedeva in piano (nella zona questo era un titolo gratificante quanto un quarto di nobiltà) e, per colmo di fortuna, sulla Via Aurelia. Anche lui stava in un podere del Conte… Ed inoltre sapeva scrivere, anche se con qualche strafalcione. Il fatto di mantenere i rapporti tra noi e la famiglia colonica e di curare la nostra semplicissima contabilità gli consentiva di autoproclamarsi nostro “fattore”. Ma era lui che lo diceva, per noi era solo “il Merlini”! Anche perché, per avere un fattore, si dovrebbe avere una fattoria.

Riferiva periodicamente, prima ai miei nonni, poi a mio padre e negli ultimi anni a me, sulle vicende del podere, sull’esito dei raccolti e sulla vendita dei prodotti: “la vacca ha figliato, sono stati portati due quintali di olive al frantoio del Guazzelli, mi sto interessando per la vendita del vino al Fontanelli”.

Ma le notizie più ricorrenti erano quelle che riguardavano la “melata”. Sarei tanto curiosa di sapere se a Castagneto usano ancora questa espressione. Non si sa che cosa fosse di preciso la “melata”. Forse era sinonimo di “malattia” , per cui, probabilmente, ogni pianta poteva avere la sua particolare “melata”. Fatto sta che non c’era anno in cui o le viti, o gli ulivi, o il granturco, o il grano non avessero la melata. Il che stava a dire che il raccolto non era dei migliori, o per quantità o per qualità e, talvolta, per tutte e due… E quando papà leggeva, nelle lettere del Merlini, l’attesa e temuta notizia, esplodeva: «Ma ai loro maiali la “melata” non viene mai?»

Ogni tanto il Merlini mandava anche un po’ di soldi, per vaglia. Ma di lettere ne arrivavano tante, di vaglia pochissimi. 

Le lettere del Merlini cominciavano tutte nello stesso modo: “Caro Signor Maggiore (e più tardi Caro Signor Colonnello), noi stiamo tutti bene, come spero sia di lei, la Signora e la Signorinna”. Quando ero piccola ero talmente soddisfatta di essere chiamata “signorina” che gli perdonavo anche la “enne” di troppo che papà maliziosamente rimarcava, leggendo ad alta voce la lettera a mamma…

Prima della guerra, dopo aver trascorso a Miramare il mese di agosto, tornavamo a Roma per preparare la partenza per Castagneto. Lì saremmo rimasti tutto settembre ed anche qualche giorno d’ottobre (le scuole riaprivano ad ottobre inoltrato) con i nonni, gli zii e la cuginetta di Firenze.

Sebbene papà si considerasse un provetto automobilista, mai, allora, si sarebbe azzardato ad andare in auto a Castagneto. La strada asfaltata l’avremmo dovuta lasciare all’altezza del cimitero e, inoltrandoci verso Segalari, avremmo poi incontrato delle vere carrarecce, simili a letti di torrente nei periodi di secca, in parte sabbiose, in parte piene di pietre e massi, anche di notevole mole. 

Si prendeva, quindi, il treno, un diretto, e scendevamo a Campiglia. Lì prendevamo un accelerato fino a Donoratico (“al Bambolo”, diceva mio nonno, che così l’avrebbe chiamato tutta la vita). Il bagaglio (un baule) veniva spedito per ferrovia qualche giorno prima perché arrivasse più o meno contemporaneamente a noi.

Se arrivavamo di sera pernottavamo dal Fontanelli che aveva “alla stazione” (così noi chiamavamo Donoratico) una trattoria con locanda. 

Alla stazione ci veniva a prendere uno dei figli del Capoccia, con la cavalla e il calesse. I miei si sedevano al suo fianco, con le loro piccole valigie in grembo, e lui, in mezzo, cercava di stare seduto il più avanti possibile, perché, dietro di lui, spalle contro spalle, mi dovevo sistemare io, con le gambe di fuori, a ciondoloni. Da quella posizione privilegiata era divertente veder scorrere la strada all’incontrario. Io, subito, con lo sguardo, prendendo come punto di riferimento gli inconfondibili resti merlati del Castello di Segalari, cercavo in alto, sulla collina, il nostro Poggio e lo riconoscevo sempre, grazie ad uno spiazzo piuttosto vasto, privo di vegetazione, proprio sotto la casa. 

Certamente, la mia posizione aveva i suoi inconvenienti anche in relazione alla lunghezza del tragitto: non potevo sottrarmi allo spettacolo della cavalla che alzava la coda e deponeva la sua olezzante “frittatina” per terra! Ma non mi disturbava affatto. Si spandeva attorno a noi un sano odore di concime che mi era familiare e che rappresentava il segno tangibile che, anche per quell’anno, la mia avventura campagnola era davvero cominciata. 

Percorrevamo il piano e poi i tornanti fino al paese, proseguendo in direzione del cimitero. Prima di questo la cavalla effettuava sempre un pericoloso “scarto”: c’era il “macello” (il mattatoio) e, senza dubbio, quell’odore di sangue alla cavalla non piaceva proprio. Imboccavamo poi la strada per Segalari, strada sterrata ma comodamente percorribile fino al podere dei Giacomini (del Conte…). 

Ma quando la strada cominciava a salire verso i resti del Castello, allora cominciavano i dolori!

Balzi e sobbalzi sconquassavano il povero calessino. E noi sopra. E così sarebbe stato fino a casa. Giunti al Crocino, intravedevo la palma. Eravamo arrivati! 

Dalle scale scendevano a precipizio i contadini. Baci, abbracci.

“Come sta bene la padrona, sta proprio bene! Com’è cresciuta la bimba!”.  Non era vero, io crescevo sempre pochissimo…!

Il giorno seguente il contadino, con il carro dei buoi, sarebbe andato alla stazione a ritirare il nostro bagaglio.

Quel luogo che avevo così avventurosamente raggiunto, quel “luogo di delizie”, che tuttora rimpiango, era così privo delle più elementari necessità che nessuno, ai nostri giorni, sarebbe in grado di restarci appena qualche ora, a meno che non intenda sottoporsi ad una prova di sopravvivenza. Ma, anche negli anni 330 e ’40, quanti avrebbero avuto il coraggio di definire un soggiorno al Poggio una “villeggiatura”?

Eppure lo era. E tutti coloro che l’hanno con me condivisa ricordano le vacanze passate a Castagneto con infinita nostalgia. Non parlo solo di mia cugina Marisa che, sia per motivi familiari (il Poggio era dei nostri nonni, quindi suo come mio) sia per il ricordo degli anni dell’infanzia e della giovinezza che vi ha trascorso, è ancora talmente affezionata a quei posti che si è sempre rifiutata di rivederli. Parlo anche di mio marito e parlo della nostra fida ancella Iside, i quali, pur non condizionati da legami ancestrali e pur avendo passato a Castagneto solo pochissime estati, lo hanno sempre rimpianto anch’essi. Come se un misterioso “genius loci” ci avesse tutti stregati per sempre…

 

… Arrivederci a domani con il prossimo episodio!

Anni Trenta, sull’aia con i compagni di giochi
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Maura Pucci da Filicaja

Maura Pucci da Filicaja vive a Roma da quando era bambina, ma nasce a Firenze novantadue anni fa. Madre di cinque figli affettuosi e nonna di ben dieci splendidi nipoti, è una signora che nutre da sempre grandi interessi. Due sonno state le passioni costanti che l’hanno accompagnata nella vita: la musica e la lingua italiana. Da quest’ultima deriva il suo più alto piacere, quello della scrittura. Come ella sostiene, famiglia e passioni sono state il “motore attivo” della sua longevità…

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